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REVIEWSLE RECENSIONI
16/02/2024
Cranìa
584
"584", il nuovo album di Cranìa, è un concentrato di acutissima perfezione, la prova di un’artista semplicemente fuori dal comune, la cui grandezza dovrebbe essere riconosciuta al più presto senza troppe esitazioni.

C’è una nuova Wave di cantautorato femminile che si muove in Italia da un po’ di anni e che oggi, finalmente, sembra anche prendersi le attenzioni dei media. Ginevra, Marta del Grandi, Emma Nolde, Daniela Pes, Bluem, Sara Parigi, Marta Tenaglia, e adesso anche Cranìa, hanno proposte molto diverse tra loro ma c’è anche qualcosa che le accomuna: la profondità espressiva, in primo luogo; e poi la voglia di sperimentare, sempre e comunque, in un itinerario di ricerca che le ha portate a fondere la forma canzone con l’elettronica minimale, senza una ricetta prefissata ma con una grandissima abilità di comunicare in modo aperto e sincero il proprio vissuto.

Francesca Cominassi, in arte Cranìa, è in giro dal 2020 (non un grande anno per iniziare un cammino artistico, direi) quando ha pubblicato il primo singolo “Stomachion”. Nel 2021 sono arrivati altri due brani, “A fondo” e “+ (più)”, preludio all’EP Giustapposizione, nel maggio successivo, che ha anche inaugurato il deal con Costello’s Records.

E quindi innanzitutto bisogna fare i complimenti all’etichetta milanese, che dopo Studio Murena e Marta Tenaglia si è assicurata un altro nome che, mi sento di poterlo scommettere, sarà destinato a fare il botto.

 

584 è il numero di giorni che il pianeta Venere impiega per entrare in congiunzione col sole; si tratta del corpo celeste più luminoso dopo il sole e la luna, eppure sulla terra è visibile solo per poche ore: questo, in sintesi, il pensiero che ha guidato Francesca nella scelta del titolo e nella composizione di un disco che si muove costantemente tra cielo e terra, istantanee di quotidianità immerse nella dimensione ultima del cosmo, ammissione di fragilità e allo stesso tempo grandezza dei propri desideri.

Senza troppo girarci attorno, questo è un disco meraviglioso. Lo è innanzitutto perché le canzoni sono scritte benissimo (merito anche di Mirko Bruno, che le ha firmate assieme a Cranìa) e funzionerebbero anche da sole, se fossero eseguite in acustico (ne ho avuto un piccolissimo assaggio durante uno showcase lo scorso anno e posso assicurare che è così). Ad arricchirle c’è però un lavoro di produzione straordinario, ad opera di Federico Carillo, ma sapientemente coadiuvato nella programmazione elettronica da Sidi e Vito Gatto (sì, proprio il violinista degli Io?Drama, che ritrovo con enorme piacere dopo parecchi anni). È proprio l’incrocio tra queste due anime a fare la differenza: i singoli brani sono uno più bello dell’altro, ma il vestito che viene loro incollato addosso rende questa bellezza ancora più concreta e delineata.

Colui che è già stato il produttore di Marta Tenaglia compie a questo giro un altro mezzo miracolo, lavorando soprattutto sui dettagli e valorizzando ciascun brano, ogni volta senza inventarsi nulla ma sempre rendendo più visibile quello che era già presente in potenza.

 

Le atmosfere sono notturne, la poetica è scarna, minimale, c’è un costante uso del down tempo, al servizio di una vocalità magnetica, tecnicamente inattaccabile ma anche estremamente espressiva, una totale disinvoltura nel muoversi tra Pop elettronico e canzone d’autore (in “Arturo” le due componenti sono fuse alla perfezione e lo spettro di Mia Martini è molto più che una semplice immaginazione).

L’elettronica è a tratti rarefatta e a tratti incalzante, con Beat e cassa dritta a sottolineare i momenti salienti, un’alternanza magistrale tra pieni e vuoti a sottolineare ancora di più l’intensità e l’importanza della posta in gioco (“Mani” e “Quattro mura” sono in questo senso costruite in maniera pazzesca).

Qua e là c’è anche un sottile gioco di orchestrazione, pianoforti  e archi stranianti come quelli de “La parte sbagliata dei binari” o struggenti in “Cemento”, mentre altrove (“Il giorno dopo ieri”) l’elettronica è prevalente e si punta soprattutto a riempire gli spazi e ad alzare il tiro.

E che Francesca abbia una marcia in più lo si capisce da “Nuovo Memo 584”, una registrazione grezza, dal sapore casalingo, probabilmente una demo che è stata semplicemente incorporata nel disco perché suonava già bene così: c’è solo la voce, accompagnata da quello che mi è sembrato un piano elettrico, con tutto lo struggimento possibile in quel “desidera” che sembra richiamare proprio la famosa e discussa etimologia di “desiderio”, che significherebbe una “mancanza delle stelle” (de-sidera, appunto).

Sono 24 minuti di acutissima perfezione, la prova di un’artista semplicemente fuori dal comune, la cui grandezza spero venga riconosciuta al più presto senza troppe esitazioni.