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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
6 - L' Esattezza - (Pt. 4) – Hi Infidelity?
Riletture Americane - Liberi percorsi nella musica commerciale del dopoguerra
CLASSIC ROCK
all RE-LOUDD
20/02/2019
Riletture Americane - Liberi percorsi nella musica commerciale del dopoguerra
6 - L' Esattezza - (Pt. 4) – Hi Infidelity?
Pensando al di fuori della filiera artista-disco-pubblico, la migliore incarnazione dell’esattezza nella musica commerciale sta nel concetto di Alta Fedeltà. “Hi Fi”, definizione pur di origine datata (1936, RCA) fu una delle parole chiave per il mercato discografico di inizio anni ’80. In concomitanza con l’introduzione sul mercato del Compact Disc, il nuovo, apparentemente rivoluzionario supporto ottico destinato a soppiantare il vecchio LP a 33 giri, fu necessario adottare decodificatori all’avanguardia e dalle specifiche tecniche sempre più complesse.
di Giovanni Capponcelli

“Gli sviluppi tecnologici inaugurati alla fine degli anni Quaranta dagli esperimenti della CBS con le registrazioni in microsolco, e giunti all'apice con la registrazione digitale e il compact disc degli anni Ottanta, avevano il duplice scopo di migliorare la qualità del suono registrato e di facilitare la raccolta e la protezione della registrazione. Per gli ingegneri elettrici impegnati a fornire alle proprie industrie un margine di vantaggio sulla concorrenza nel mercato della musica riprodotta le implicazioni musicali dei loro esperimenti erano chiare: ciò che tentavano di ottenere era rendere il suono registrato una riproduzione più accurata possibile del suono “reale" — e subito il nuovo procedimento fu commercializzato con il nome di ‘high fidelity’ (alta fedeltà). D’altra parte, le argomentazioni dì vendita circa l’avvicinamento sempre più stretto della registrazione all’esperienza ‘completa’ della musica ‘live’ non sono altro che chiacchiere commerciali. Ogni nuovo progresso — i dischi stereofonici negli anni Sessanta, l’eliminazione, con i compact disc, del deterioramento e dei rumori di fondo negli anni Ottanta -— modifica la nostra esperienza musicale.”

[Simon Frith – Il Rock è finito]

Storia dell Hi-Fi da: http://www.icanhasinternets.com/2011/08/the-history-of-hi-fi-for-us-old-fogeys/

In realtà è arduo stabilire quanto o addirittura “se” la qualità del suono sia realmente migliorata nel passaggio vinile-CD; ciononostante il brand Hi-Fi, abbinato all’appeal futurista e minimale del compact disc divenne presto il primo comandamento della nuova musica commerciale: si poteva vendere solo ciò che riportava quel fatidico marchio mentre le orecchie degli ascoltatori erano blandite e viziate dalla ricerca continua di sfumature sonore, sovrapposizioni timbriche, cross-fade, suoni cristallini che a posteriori sembrano un’evoluzione commerciale della ricerca della perfezione acustica dei Pink Floyd di The Dark Side of the Moon, album dall’impatto mediatico e popolare imponente che, pur secondo la personale visione del gruppo, non deviava tanto dal modello di Sgt. Pepper.

Tutta la sovrastruttura pubblicitaria dell’alta fedeltà consentì inoltre ai distributori di vendere compact disc allo stesso prezzo dei vinili, nonostante la fabbricazione massiva dei primi avesse consentito un buon abbattimento dei costi alla produzione.

"Al tempo, il Cd era stato appena lanciato. Persi il conto dei clienti che riportavano i Cd perché non riuscivano ad ascoltarli con il giradischi. La promozione del nuovo supporto da parte dell’industria musicale era stata incredibile: c'era gente convinta che i Cd si potessero usare come sottopiatti senza rovinarsi. Poi si sarebbe potuto suonarli senza problemi. Una menzogna sfacciata.

Un giorno un tipo venne in negozio a chiedere un rimborso. Acquistato un Cd, aveva deciso di mostrare a un amico che quel disco avrebbe potuto sopportare qualsiasi maltrattamento, senza danneggiarsi. Ci aveva camminato su facendolo strusciare su un tappeto, poi aveva provato a sentirlo, ovviamente invano. Raccontatomi l’aneddoto, quello pretendeva che gli risarcissi il prezzo del Cd. Inutile dire che se ne andò a mani vuote. Un altro cliente raggirato dal battage relativo al Cd."

[Graham Jones - Il 33° Giro. Gloria e resistenza dei negozi di dischi]

La querelle riguardante il supporto più fedele nella riproduzione del suono è tornata di moda nei primi anni del nuovo millennio quando pareva che il CD dovesse presto venire sostituito dai nuovi - questi sì rivoluzionari - formati digitali, primo fra tutti quel “mp3” che fu tra i primi contenuti ad essere distribuiti tramite il web, spesso illegalmente via peer to peer: furono le alterne fortune di Napster a imporre di fatto questo tipo di compressione all’attenzione delle major e del grande pubblico. Il formato mp3 è un formato “a perdita”, sacrifica cioè alcune frequenze estreme in favore del contenimento della dimensione del file che risulta così più facilmente distribuibile ed immagazzinabile. È ancora il formato privilegiato per lo scambio e la riproduzione nonostante negli ultimi anni si siano affacciate sul mercato nuove, ottime tipologie di file sia lossy (Ogg Vorbis, per esempio) sia lossless, cioè senza perdita (come i file “Flac”).

Quanta precisione e profondità sonora si perde nell’ascolto di un brano in mp3, o più in generale di un qualsiasi formato digitale?

Se da un punto di vista fisico e informatico la risposta è piuttosto oggettiva, ancorché non semplice, è pur vero che l’ascolto è sempre un’azione soggettiva. Un mp3 è solitamente considerato una buona riproduzione quando il suo bitrate è compreso tra 128 e 256 bit per secondo; a bitrate superiori si può arrivare a parlare addirittura di Alta Fedeltà. L’esattezza sonora non ne risulta quindi necessariamente compromessa, ma è un’altra la perdita che può maggiormente interessare: la scomparsa dell’hardware come contenitore e garante dell’opera artistica, dove con hardware intendiamo la parte fisica, materiale del medium: CD, confezione, booklet, tutto ciò che serve a proteggere, ma che soprattutto porta un’informazione ulteriore, cioè tutti i metadati necessari alla corretta interpretazione del “dato sonoro”.

Fragmentation Study, da: http://hameed.deviantart.com/art/Fragmentation-study-150488741

 

Con la distribuzione digitale della musica resta solo il software, solo il dato musicale puro, che anzi deve anche farsi carico, nei limiti del possibile, di veicolare i metadati tradizionalmente associati all’hardware. Tutto il resto viene obbligatoriamente ricomposto, in versione informatica, richiamato da imponenti database web per restituire un nuovo tipo di medium.

E se questo aspetto può essere facilmente, ma colpevolmente, trascurato dall’ascoltatore, è invece il presupposto fondamentale per i distributori e i produttori di musica, che possono svincolarsi dall’oggetto concreto (il cd, la sua custodia…) cambiando radicalmente tutti i canali nella produzione e diffusione di un bene che non è più (anche) concreto, ma è solo “informativo”. Dato puro.

Nella migliore delle ipotesi i metadati di un file musicale sono immagazzinati assieme al file stesso sotto forma di “tags”, cioè un elenco di attributi che rispondono a categorie predefinite: autore, titolo, artista…

Se la parte materiale dell’hardware (copertina, digipack, custodia...) è scomparsa, la parte informativa è esplosa in una miriade di parole chiave attraverso le quali, in ogni libreria musicale, potremo ordinare le nostre canzoni. Si perde dunque anche l’unitarietà dell’album (ma anche della compilation) che finisce diluito in spazi sempre maggiori di memoria, in compagnia di altre migliaia di brani tra i quali non c’è di fatto soluzione di continuità.

La qualità dei metadati però crolla terribilmente sui circuiti streaming (YouTube, pur non essendo propriamente streaming è ormai un’enorme banca dati musicale) e soprattutto P2P, in cui è difficile trovare informazioni aggiuntive all’enunciato minimo: Nome dell’artista – titolo canzone.

L’organizzazione dell’informazione in tags ha l’enorme vantaggio della praticità d’uso, almeno limitatamente a contesti peculiari come i software di gestione quali I-Tunes, Mediamonkey, Winamp…. Il loro utilizzo risulta molto più complesso già in ambiente Windows; il vantaggio determinante di questi formati, e in particolar modo di quelli “a perdita”, sta nelle loro piccole dimensioni: sono facilmente immagazzinabili e soprattutto trasferibili in tempi brevissimi.

Il sistema dei tags ha però anche alcuni difetti:

- sono di difficile interpretazione e visualizzazione al di fuori di specifici ambienti software

- sono facilmente modificabili

Quest’ultima caratteristica poi fa venir meno una delle prerogative peculiari dell’hardware tradizionale, cioè la garanzia di esattezza e autenticità del contenuto.

Sa la perdita di informazione nel dato sonoro, ancorché evidente, è ormai ben controbilanciata dalla crescente qualità dei formati audio compressi, la riorganizzazione e la perdita di informazioni derivanti dai metadati è innegabile. Se oggi la distribuzione digitale è tutto sommato ancora agli inizi, cosa dovremmo aspettarci tra 20 o 30 anni, dopo decenni di abituale utilizzo di media digitali?

Sarà ancora possibile “ricostruire” in modo esatto l’hardware tradizionale per evitare la perdita di informazione e quindi di conoscenza?

(continua)