Il consenso che i Beach House si sono guadagnati nel corso degli anni è notevole e ha pochi eguali nel mondo musicale contemporaneo. Pur senza mai raggiungere uno status da gruppo “mainstream”, si sono comunque ritagliati uno spazio più che ragguardevole e oggi sono una realtà che è impossibile mettere in discussione.
Alex Scally e Victoria LeGrand arrivano al settimo lavoro in studio forti di questo consenso e nel momento in cui non hanno più nulla da dimostrare a nessuno.
Per la verità, l’accoppiata “Depression Cherry/Thank Your Lucky Star”, col primo che aveva esposto in maniera pedissequa le coordinate del loro sound e il secondo a fungere da utile e piacevole compendio, ci aveva già messo davanti tutti i pregi e i limiti di una proposta affascinante ma parecchio refrattaria ai cambiamenti.
Ora, dopo che la pubblicazione della raccolta “B-sides and Rarities” dello scorso anno aveva in qualche modo chiuso un ciclo, era lecito domandarsi che cosa il duo di Baltimora si sarebbe inventato per rimanere costante sulla cresta dell’onda, evitando allo stesso tempo di risultare ripetitivo.
La risposta è stata quella di separarsi dal loro storico produttore Chris Coady e di avvalersi della collaborazione di Peter Kember, il famoso Sonic Boom degli Spacemen 3, uno che senza dubbio sa che cosa vuol dire lavorare alla confezione sonora di un disco. In secondo luogo, al posto della loro solita velocità nel lavoro in studio, ci hanno messo parecchio, circa undici mesi, per terminare il tutto, lasciandosi guidare dall’istinto e sperimentando diverse soluzioni, senza avere nulla di veramente fisso in testa.
Il risultato è che questo “7” (titolo meno fantasioso non poteva esserci) mostra una più decisa volontà di abbandonare le atmosfere sognanti e vagamente snob del passato, per assorbire un feeling maggiormente oscuro e dando a certi brani un impatto più diretto.
L’incalzante giro di Synth che apre “Dark Spring” (un ossimoro, quello del titolo, che sembra in qualche modo riflettere tutto lo spirito del disco) e il ritmo sostenuto a cui si muove il brano, sono già una chiara indicazione di questo nuovo corso. Brani nel complesso più asciutti, a volte più ruvidi, spesso e volentieri alla ricerca di una strada più veloce per farsi comprendere (si veda “Drunk in L.A.” che con la sua linea vocale accattivante non disdegna un certo flavour Pop o il secondo singolo “Dive”, dove la seconda parte accelera improvvisamente e vede per una volta la chitarra di Scally a dirigere il tutto). Altrove prevale una certa oscurità, come in “Black Car” o nella molto poco canonica “L’Inconnue”, la cui aurea spettrale è accentuata dal cantato in francese. O ancora, l’eterea sospensione della conclusiva “Last Ride”, con tanto di chiusura tra il cosmico e il rumoristico.
Sono comunque sfumature, accenti diversi, nulla di più. Questo rimane in tutto e per tutto un disco dei Beach House, con tutti gli alti e i bassi che questa definizione comporta. C’è sempre il cantato misterioso e affascinante di Victoria, unito all’uso evocativo delle tastiere e ai ricami chitarristici di Scally. Una formula sofisticata e anche un po’ artistoide, che negli anni è stata magnificata da più parti e che, accanto alla tendenza che i tre (contando anche il batterista James Barone, a questo giro impiegato anche in studio) hanno di suonare dal vivo nascosti su un palco sempre illuminato a luci basse, alimentando il senso di mistero che li circonda, è stato uno dei motivi principali dietro al crescente successo del collettivo americano.
“7” piacerà a tutti i fan della band ma non dice sostanzialmente nulla che già non sapessimo dei Beach House.
Qualche piccola aggiustatina qua e là non basta per sbloccare un songwriting che, nonostante sia sempre di ottimo livello, rimane costantemente ripiegato su se stesso. L’impressione, tuttavia, è che ancora una volta abbiano ragione loro.