David Pajo ha cinquant’anni e, artisticamente parlando, si può dire che abbia vissuto altrettante vite. È stato un icona del Post Rock prima con i mai troppo lodati Slint e poi con i Tortoise. Ha fatto parte degli Zwan, il fugace progetto post-Pumpkins di Billy Corgan. Si è avvicinato a modo suo al Metal con i Dead Child. E ha messo a disposizione di chiunque la sua perizia strumentale e la sua versatilità, spaziando dall’Hardcore Punk al Math Rock, dall’Elettronica al Folk, dall’Alternative all’Indie. The For Carnation, Stereolab, Royal Trux, King Kong, Will Oldham, Yeah Yeah Yeahs e Interpol sono solo alcuni dei nomi con i quali il buon David può dire di aver collaborato.
Highway Songs, il precedente album di Pajo con il monicker di Papa M uscito due anni fa, oltre che un ritorno alla musica dopo tanto tempo, era stato per David innanzitutto un ritorno alla vita, dal momento che, tra il 2015 e il 2016, aveva dovuto prima fare i conti con un tentativo di suicidio e poi con un terribile incidente motociclistico. Questa ritrovata fame di vita e di musica aveva irradiato Highway Songs di un’aura speciale, un po’ catartica e un po’ frenetica, come se Pajo avesse voluto condensare in un’unica volta tutta la musica che ha amato, dal Rock sabbathiano al Folk à la Leonard Cohen.
A Broke Moon Rises, invece, è di tutt’altra pasta. Completamente strumentale, prevalentemente acustico, è composto da cinque lunghe suite dove la chitarra è lo strumento predominante, alla quale, layer su layer, con l’aiuto di un discreto tappeto percussivo, è lasciato il compito di creare l’atmosfera di tutto il disco. E se “The Upright Path”, “Walt’s” e “Shimmer” procedono per aggiunta, costruendo le loro architetture sonore con pazienza, “A Lighthouse Reverie” è meno immediata, con una struttura che alterna efficacemente il forte con il piano e il semplice con il complesso. Conclude l’album una rivisitazione di “Spiegel im Spiegel”, una pezzo del compositore estone Arvo Pärt, originariamente basato su pianoforte e violino, al quale Pajo altera l’arrangiamento facendo eseguire alle chitarre gli arpeggi del pianoforte e simulando il violino attraverso l’e-bow. Un finale perfetto per un album, semplice, rigoroso e sobrio, che non è nient’altro che la colonna sonora di un immaginario film che racconta la storia di un uomo finalmente in pace con se stesso.