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REVIEWSLE RECENSIONI
21/09/2017
Everything Everything
A Fever Dream
Idee più chiare e maturità artistica nel quarto lavoro della band di Manchester, a cavallo tra math-rock e un efficace prog-pop elettronico.

Primo: vi devono piacere le voci in falsetto, roba che non si sentiva almeno dall’era in cui imperversavano i Supertramp, o quei timbri maschili incredibilmente acuti alla Jon Anderson degli Yes di 90125. Nel 2017, ai tempi del primato delle corde baritonali di Matt Berninger o di Satellites, bisogna davvero ri-abituare le orecchie a certe vette melodiche.

Secondo: nessun pregiudizio sull’uso massiccio dei sintetizzatori, anche quelli con i suoni “fat” e distorti impiegati al posto del basso, anche quelli che fanno ritmiche tipicamente disco, magari su tempi dispari.

Terzo: per voi il math-rock non solo non è un’opinione ma vive e cammina grazie a una successione di regole a cui non è permesso trasgredire nemmeno con una semibiscroma fuori posto, se non per salire al piano superiore, quello del prog. Immaginate la precisione dei Foals portata all’estremo, o comunque, il fattore specifico di tutti quei gruppi che mettono l’anima mostruosamente a clic.

Date queste premesse, benvenuti nel club degli Everything Everything e, soprattutto, benvenuti alla loro release 4.0. Non preoccupatevi, sono sempre loro, solo con delle feature in più.

Gli Everything Everything sono una delle poche band le cui canzoni si riconoscono al massimo al primo giro per le tre caratteristiche che ci siamo detti sopra o, per chi vuole avere una prova certa prima di attivare Shazam e chiudere la questione, non c’è dubbio che la voce di Jonathan Higgs sia davvero inconfondibile.

Che cosa cambia rispetto al rispettabilissimo “Get To Heaven”? “A Fever Dream” è meno disordinato nei generi, un fattore forse riconducibile alla maturità artistica anche quando strizza l’occhio al mercato. Ma non c'è da preoccuparsi. Certi sconfinamenti nel pop, con un uso più sfacciato dell’elettronica, sono solo esercizi di stile e anche quando all’ascoltatore viene da lasciarsi andare a melodie orecchiabili, si percepisce sempre, nel substrato armonico, nella ritmica o nella scelta dei suoni, qualcosa che non mette per nulla a proprio agio, come invece una hit da classifica richiederebbe.

L’incipit di “Night of The Long Knives” è una vera e propria dichiarazione di intenti di quello che ci apprestiamo ad ascoltare. Melodie articolate su trame di tastiere, chitarra e basso, in una simmetria strutturale portata all’estremo. Con “Can’t Do” l’atmosfera si fa meno frenetica e, per certi aspetti, più rassicurante. L’elettronica è ancora protagonista e fa da contorno a un groove ricco di contrattempi su cui la voce di Jonathan Higgs, e i cori a supporto, si rincorrono e si riprendono senza sosta, con un effetto molto gradevole. La successiva “Desire” si distingue per l’andamento shuffle, il canto solista distorto e un intreccio di armonizzazioni barocche, mentre quello che si diceva prima a proposito degli Yes (quelli di “Leave it”, per capirci) lo si può trovare in “Big Game”.

L’album prosegue con “Good Shot, Good Soldier”, forse la migliore traccia del disco o, per lo meno, il ritornello più convincente, mentre la cassa reggaeton della strofa di “Run the Numbers”, a noi reduci da un’estate all’insegna di Despacito, lascia interdetti, ma basta avere un po’ di pazienza e attendere il ritornello per riaddentrarci in territori più alla nostra portata. Di stampo completamente diverso lo sviluppo fusion e free di “Put me together”, che presenta un intermezzo di strumenti apparentemente in libertà, subito irregimentati dal tema portante del pezzo con il quale si rientra nella piena regolarità.

A due facce anche la titletrack: un incipit in tre quarti di piano, strings e voce, contrapposto a un corpo in quattro introdotto da un suono di metronomo, con un crescendo in mid-tempo sovrastato da un mantra vocale in loop fino all’ultima battuta. Il tutto arricchito da synth e un tripudio di suoni spalmati lungo l’intero l’arco stereofonico. Sicuramente uno dei pezzi più efficaci.

Con Ivory Tower il disco rientra nell’ibrido stilistico che contraddistingue la band: spunti math e incursioni in un prog modernissimo che non ha eguali, soprattutto nell’incastro tra chitarre e basso, da metà pezzo in poi.

I suoni tornano rarefatti in “New Deep”, in cui l’assenza di batteria ci permette di scoprire forse il lato più riflessivo del gruppo. Infine, vediamo la “White Whale” a cui è dedicata la ballad – l’unica di tutto l’album - di chiusura allontanarsi all’orizzonte, verso il prossimo futuro lavoro degli Everything Everything che, siamo certi, ci sorprenderà ancora. Matematico.