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REVIEWSLE RECENSIONI
31/07/2020
Fontaines D.C.
A Hero's Death
La “morte di un eroe” a cui ammiccano potrebbe essere la loro, così come potrebbe anche simboleggiare l'inesorabile ritorno alla realtà che non pochi soggetti saranno destinati a subire, in quest'epoca dove il successo è sempre più frutto del carattere effimero delle circostanze.

Il principale tema narrativo che ha accompagnato il nuovo disco dei Fontaines DC ancora prima dell'uscita è il timore di non riuscire a mantenere le aspettative altissime generate dal debutto. Ci hanno ricamato su loro stessi, l'ironia un facile espediente per compensare una paura che col passare del tempo si era fatta drammaticamente reale (il cantante Grian Chatten ha parlato diffusamente dei suoi disagi e del senso di straniamento che l'improvviso successo ha generato in lui). Così hanno preso una battuta di un'opera teatrale di Brendan Behan, controversa figura del Pantheon letterario irlandese, drammaturgo, poeta, membro dell'Ira e alcolizzato cronico, che in Italia era già stato omaggiato dai Modena City Ramblers (nel primo disco, quando rappresentavano ancora un interessante fenomeno di crossover culturale nel nostro panorama musicale autoreferenziale). 

La “morte di un eroe” a cui ammiccano potrebbe essere la loro, così come potrebbe anche simboleggiare l'inesorabile ritorno alla realtà che non pochi soggetti saranno destinati a subire, in quest'epoca dove il successo è sempre più frutto del carattere effimero delle circostanze. 

E così, tra la citazione letteraria del titolo e la copertina raffigurante l'eroe del ciclo di Ulster Cùchulainn, sembrerebbe che i nostri abbiano riaffermato quei legami con la madrepatria che erano già particolarmente abbondanti in “Dogrel”. Questo, nonostante abbiano messo più volte in chiaro che questo disco rappresenta un deciso allargamento di orizzonti: non più solo Dublino e l'Irlanda ma anche il mondo intero, l'America in particolare, che hanno conquistato lo scorso anno con un tour e che ha visto le prime registrazioni delle nuove canzoni, a Los Angeles, prima dello spostamento nella più famigliare Streatham, in compagnia del produttore Dan Carey, che aveva già dato forma al debutto. 

Mettiamo subito le cose in chiaro: se i Fontaines DC volevano davvero identificarsi con l'eroe del titolo, a questo giro non moriranno di certo. Il rischio c’era, ovviamente, e sarebbe accaduto se si fossero messi in testa di dare al pubblico nuovi inni da cantare a squarciagola pogando ubriachi. Avrebbero potuto rifare “Big”, “Too Real”, “Chequeless Reckless”, “Boys in the Better Land”. Sarebbero diventati i nuovi Idles e la gente li avrebbe adorati più di prima. 

Ma a quel punto, probabilmente, non avrebbero più suonato per loro stessi e questo, da quello che in più di un'occasione hanno dichiarato, sappiamo che è sempre stata una loro priorità. 

Molto meglio, per proseguire il loro percorso, ampliare ed approfondire gli spunti di novità già espressi in precedenza, quella cupezza di fondo, una certa predilezione per la melodia e per la forma “cantautorale” dei brani, quell'attingere dalla tradizione irlandese interiorizzandola per renderla meno riconoscibile ma comunque presente. 

Di conseguenza, nessuno stupore a leggere che i Beach Boys sono stati una delle loro fonti primarie per questo lavoro. Difficile scovarli anche dopo numerosi ascolti ma la ricercatezza melodica e la cura dei dettagli è senza dubbio quella di Brian Wilson e compagni. 

Per il resto, l'ingrediente principale risiede ancora una volta nella celeberrima formula di Mark E. Smith: Repetition. Le strutture sono sempre quelle, gli accordi non più di una manciata, ma si gioca molto sulla variazione minima, sui crescendo, sull'incedere ossessivo della sezione ritmica, sul senso di angoscia e di incombente rovina che si sprigiona da tutte le tracce, su un lavoro di chitarra prodigioso da parte di Carlos O' Connell e Conor Curley, che fanno cose splendide anche se molto poco appariscenti, contenti come sono di sparire all'interno del generale flusso delle canzoni. 

Ne è uscito un lavoro meno aggressivo e leggermente più melodico, meno anthemico e molto più scuro, a tratti decadente, quasi che volessero offrire una colonna sonora ideale alla triste prosaicità di questi nostri tempi. Niente di tutto questo, però: Grian Chatten ha passato il lockdown a leggere, in un esplicito sforzo per evadere dalla realtà. E questo, nonostante tra gli ultimi titoli citati ci sia “Il maestro e Margherita”, che fa i conti con la verità dell'esistenza molto di più di quanto la sua strampalata trama farebbe intendere a prima vista. Comunque sia, ha detto che di scrivere pezzi sul lockdown e sulla pandemia, proprio non ne vuole sapere. La title track (che in quanto primo singolo ha ingannato parecchio sulla direzione che avrebbero preso, essendo l’unico pezzo che avrebbe potuto tranquillamente stare su “Dogrel”) appare più che altro come un manuale di istruzioni per vivere al meglio una vita che, come canta nel ritornello, “non è sempre vuota”. Un barlume di ottimismo che contrasta con un mood generale decisamente opposto? Potrebbe essere. 

Resta il fatto che “A Hero's Death” riconferma l’abilità dei Fontaines DC nello scrivere canzoni che arrivino dritte al punto, nonostante qui scelgano una formula meno immediata. La loro versione del Post Punk e di quello che alcune riviste hanno cominciato a chiamare “Post Guitar Music” è ben espressa dalla funerea “Love is the Main Thing”, la più incalzante “A Lucid Dream”, sorta di strano ibrido tra Smiths e Joy Division, “Televised Mind” e “Living in America”, maggiormente in linea con le vecchie cose ma sempre riflessive nel mood generale e soprattutto in quelli che possono essere individuati come tentativi di aggiornare il songbook della tradizione anglosassone, dal senso di nostalgia e insieme di tragedia incombente di “Oh Such a Spring” (“I watched all the folks go back to work just to die”), alla conclusione con le suggestive “Sunny” e “No”, che suonano come una “Dublin City Sky” molto più matura e consapevole. 

Fossimo ancora in tempi pre Covid, avrei forse scritto che con “A Hero's Death” i Fontaines DC sarebbero stati ben incamminati a divenire una delle band più importanti del decennio appena iniziato. In questa situazione niente è certo e pensare al peggio potrebbe essere un atteggiamento non poi così disfattista, purtroppo. 

Resta il fatto che il secondo disco dell'act irlandese è esattamente quello che avrebbero dovuto incidere per dimostrare di non essere solo un mero fuoco di paglia. Converrete con me che non sia affatto banale. 


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