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A proposito di un libro sugli eroi della notte
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27/07/2017
Out In Clubland Having Fun
A proposito di un libro sugli eroi della notte
Trent’anni dopo questo “altro” lo trovate descritto e ben documentato visivamente in We Can Be Heroes, libro scritto nelle immagini da Graham Smith e nei testi da Chris Sullivan più un numero vastissimo di ospiti.
di Stefano Galli steg-speakerscorner.blogspot.com

L’ennesima influenza natalizia mi colpisce nel dicembre 1980, sto preparando Storia del diritto italiano: un misnomer.

Radio Milano International trasmette fra gli altri: da Sandinista! di The Clash almeno “The Call Up”[1], “Fade To Grey” debutto (apparente) dei Visage, e “To Cut A Long Story Short” degli Spandau Ballet[2].

Non serve internet, serve The Face - ne acquisto tre copie a numero: due da ritagliare e una intera, dieta tipografica scellerata ma necessaria, a partire dall’agosto 1980! - per sapere che a Londra, mentendo sulla salute ai genitori come capitò nella stessa stagione del 1977 se del caso, ci andrò comunque. Lì non comprerò l’album (triplo) degli ex (per me) eroi della Westaway, ma il singolo di debutto degli Spands, l’album dei Visage (dato che non esiste un dodici pollici del singolo con versione/i diversa/e) e l’inutile versione 12” (quella 7” con custom sleeve dorata è già il winter single dell’anno da un paio di settimane) di “Israel” di Siouxsie and the Banshees, ma per loro si deroga al contenuto.

Passati: il punk, il post-punk, il 1979-mod, lo ska cum eventuale Trojan skin-suedehead sound, c’è insomma anche altro.

Ecco perché Sandinista! è vecchio alla nascita pur contenendo talune belle canzoni.

All’epoca ci fu qualche tentativo di esaminare questo fenomeno che era in sostanza molto night clubbing e molto apparire, disc-jockey stelle e futuri artisti ancora in bilico fra pubblico e personaggio dall’estetica variabile.

Ma esso era cosi poco fissabile, con stili che cambiavano nel giro di qualche settimana (il suicidio della moda. Eppure emersero anche stilisti su cui si sono in parte fondate le maison per svecchiarsi) che divenne “innominato”, dunque cult with no name e un volume a cura di Ian Birch dal titolo The Book with No Name.

Trent’anni dopo questo “altro” lo trovate descritto e ben documentato visivamente in We Can Be Heroes, libro scritto nelle immagini da Graham Smith e nei testi da Chris Sullivan più un numero vastissimo di ospiti.

Faccio come avrei fatto anche allora, e vi lascio alla ricerca del volume senza altre indicazioni: la credibilità ce la si costruisce.

È un libro come vorrei averlo pubblicato io[3]: con le playlist dei vari club, per cui spero che Nicola “Plastic” Guiducci lo abbia comprato magari in doppia copia come un disco che si usura per il tanto ascolto oppure che serve da mixare con se stessi[4] o come un libro che si squaderna per la troppa consultazione[5].

È un libro con anche le foto delle tessere dei club (la rivoluzione non è popolare: cfr. Billy MacKenzie e il palazzo d’inverno) come mostrine di corpi d’elite.

È un libro da Tape Art, con Sergio che all’occasionale e quindi ignoto (imputet sibi) e potenziale cliente dichiara con ineluttabilità: “ah scusa, ma tutte le copie sono già prenotate” e poi – bevendo l’aperitivo che arriva dal Bar Quadronno – ride con te dell’aneddoto.

Quindi è un libro per Fred Ventura (you like Jimmy Pursey, me like Joe Strummer).

Proprio un bel libro per tutti quelli che masticano Animal Nighlife, Pride e concerti dagli inviti monumentali per le primissime esibizioni degli Spandau Ballet, ma apprezzano anche una rara foto del novembre 1977 di S&TB al Music Machine con John McKay che indossa anch’egli una “tits t-shirt” di Seditionaries.

Che serve parlare di me? Beh quel tuxedo bianco comprato di seconda mano (King’s Road o Flip?) che inaugurai per Georgie Fame a fine 1980 lo indossai anche per un concerto dei Funkapolitan nell’estate del 1981 da qualche parte dietro la fermata di Tottenham Court Road della tube.

In quella stagione calda passavo da The Cage di Rusty Egan, in King’s Road, per certi singoli.

Ma già ero un vecchio ventenne: i Theatre of Hate stavano come labaro per un positive punk che nessuno ancora scorgeva, però anche loro con stile, un po’ hard times (a buon intenditore …), del resto Kirk Brandon e Boy George erano nello stesso giro.

Comunque fosse, è vero: si poteva essere eroi.

 

[1] Allora non c’era la schiavitù del singolo nella programmazione radiofonica. Si poteva osare nel fare ascoltare più canzoni dallo stesso album al pubblico.

[2] Uno dei più disastrosi cimenti per la pronuncia dei DJ italiani.

[3] Plurime le edizioni. Giustamente con un ruolo d’onore per i suoi sovvenzionatori.

[4]  Cfr. David Bowie: “I am a DJ/I am what I play” (D. Bowie, “DJ”).

[5] Lo spirito moderno trova il compromesso fra lo sprezzo del momento e i materiali delle avanguardie che si trasformano in pezzi da collezione. Non so se sia possibile mixare i libri oltre il cut-up burroughsiano.