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MAKING MOVIESAL CINEMA
A Serious Man
Joel e Ethan Coen
2009  (Medusa Film)
COMMEDIA DRAMMATICO
all MAKING MOVIES
25/04/2020
Joel e Ethan Coen
A Serious Man
Sappiamo tutti come in tempi di guerra fosse uso tra le fila dei vari eserciti utilizzare messaggi cifrati, comunicazioni criptate in modo da non poter essere decifrate in caso fossero state intercettate dal nemico; il destinatario per tradurre questi messaggi in linguaggio comprensibile necessitava di un codice di traduzione, una chiave di lettura utile per dipanarne il contenuto.

A serious man dei fratelli Coen si apre con un breve episodio, completamente slegato dal resto del film, che potrebbe considerarsi proprio una sorta di codice: cosa aspettarci da questa storia, come possiamo interpretarne il senso, e soprattutto... c'è un vero senso da estrapolare? In questo prologo, recitato in lingua yiddish, in un piccolo villaggio in Polonia un uomo porta a casa un'ospite, un vecchio che lo ha appena aiutato in un momento di difficoltà. La moglie del padrone di casa vede nell'uomo un dybukk, vocabolo della lingua ebraica che indica una sorta di fantasma, un'anima posseduta dal maligno. Nelle radici della cultura ebraica sta il cuore del film dei Coen, registi di origine ebraica anch'essi, cresciuti nel Minnesota, proprio come il protagonista di A serious man.

Un uomo serio, dove l'accezione del termine va forse intesa come "retto" e dove "retto" va inteso come "moralmente integro" e non in altro senso. Larry Gopnik (Michael Stuhlbarg) cerca di essere un uomo retto, nella vita non fa molto altro, lascia che le cose accadano, non è un uomo di grandi iniziative, non ha un grande rapporto con i figli né particolari passioni da coltivare: molta pazienza, onestà, poco coraggio. La sua serie di sfortunati eventi inizia quando la moglie (Sari Lennick) gli confessa di essersi innamorata e di averlo tradito con il suo amico Sy Ableman (Fred Melamed) e di volere il divorzio in modo da potersi risposare "nella fede" con il suo nuovo amante. La figlia Sarah (Jessica McManus) si preoccupa solo dei suoi capelli e di recuperare venti dollari dal fratello Danny (Aaron Wolff), un adolescente in fissa con i Jefferson Airplane (siamo nel 1967). E poi il lavoro da precario come insegnante di fisica all'Università è a rischio, un suo studente cerca di corromperlo per ottenere una sufficienza, il fratello Arthur (Richard Kind) che gli si è piazzato in casa ha una fissa con i numeri e con il gioco e si mette nei pasticci, la moglie lo caccia di casa affabilmente, e poi, e poi, e poi ancora...

Larry subisce e si fa delle domande. Ma in tutto questo, nella vita di un uomo retto, un uomo che sta accompagnando suo figlio verso il Bar mitzvah, che ruolo ha Hashem (il Nome, in riferimento a Dio)? E perché nella rettitudine Larry è costretto a subire una prova dopo l'altra? La risposta non ce l'ha il giovane Rabbino Scott (Simon Helberg, il Wolowitz di The big bang theory), non ce l'ha il maturo Rabbino Nachtner (George Wyner) e nemmeno il vecchio Rabbino Marshak (Alan Mandell). Forse, ma solo forse, la risposta ce l'hanno i Jefferson Airplane.

Come (quasi) sempre l'approccio dei Coen a qualsiasi materia ha del comico, qui però si ride sempre a denti stretti, anche i momenti più divertenti, e ce ne sono, hanno quel che di amarognolo che rimane lì ad aleggiare, per chi non ha una natura strabordante magari può avere passaggi di comprensione verso un protagonista inadatto ad emergere e che cerca una spiegazione che da solo non si può dare, e che in fin dei conti nemmeno nessun'altro può dargli, e forse il senso ultimo di A serious man è addirittura il senso ultimo della vita, l'aspetto tragico e che i Coen sembrano sostenerne la totale assenza, un messaggio difficile da digerire in un'epoca fatta di training motivazionali e pseudominchiate per diventare finalmente l'uomo di successo! In questa società che speranze possono avere i Larry Gopnik, e hai voglia a invocare il nome di Hashem (il Nome appunto). E se il senso ultimo fosse semplicemente un bel pezzo rock?


TAGS: ASeriousMan | cinema | Coen | DarioLopez | loudd | recensione