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REVIEWSLE RECENSIONI
23/01/2024
Mariusz Duda
AFR AI D
Un disco concettualmente ispirato dal repentino sviluppo dell’AI, con cui “gioca” sin dal titolo, associando l’Intelligenza Artificiale ad uno stato di timore (afraid), quasi ad evocarne i lati oscuri e la paura connessa al suo sviluppo tecnologico, ma nell’alveo di una musica che guarda retrospettivamente al sound elettronico degli anni ’80 e ’90.

L’ambito della musica elettronica è oramai un universo in continua espansione, le produzioni si susseguono a ritmo crescente, con la conseguenza che riesce veramente difficile cercare di selezionare delle opere che meritano un posto al sole.

Penso veramente che, per gli amanti di questo genere, per ogni disco scoperto ed apprezzato, ve ne siano numerosi altri che, per una serie di motivi, ivi compresa la fortuna o casualità di imbattersi in qualcosa di nuovo, rimangono celati ai più.

È quello che mi è successo “imbattendomi” nel nuovo album solista di Mariusz Duda, leader dei Riverside e dei Lunatic Soul.

Ciò che mi ha attirato è stato il calembour linguistico che, sin dal titolo AFR AI D, “gioca” con l’Intelligenza Artificiale accostandola ad uno stato di paura (afraid, appunto) quasi ad evocarne i lati oscuri, come graficamente risulta dalla stessa cover di un artista che collabora da anni con Duda.

 

Come dichiarato in sede di presentazione dell’album, l’ispirazione per la nuova opera è sorta nel osservare come lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale desti in tutti noi uno stato di ansietà, dovuto, come sempre accade, alle prospettive che gli stadi di sviluppo tecnologico del futuro prossimo potrebbero portare con sè: “ci farà perdere il lavoro?”, “prenderà il controllo del mondo e delle nostre vite?”.

Per quanto riguarda però l’applicazione dell’IA alla musica (perlomeno in alcuni generi musicali), la discussione presenta sicuramente molte sfaccettature, anche di tipo legale (ad esempio: il diritto di autore si può applicare alla musica “ideata” dall’IA?). Personalmente penso che l’IA modificherà sicuramente il modo di lavorare (e non solo) di tutti noi, ma continuo umanisticamente (o forse ingenuamente?) a pensare che la macchina può, al massimo, migliorare o taylorizzare il lavoro, ma l’ingegno umano è e rimane patrimonio dell’essere umano, non il frutto di un machine learning.

 

Passando al disco devo subito precisare che, se l’ispirazione risulta essere come detto l’ansia e il timore connesso agli sviluppi tecnologici, concettualmente invece la musica dell’autore polacco si situa nell’alveo di un sound elettronico che guarda retrospettivamente agli anni Ottanta e Novanta.

Il brano con cui esordisce l’opera, “Taming Nightmare” introduce nel sentimento sopra descritto: dopo una prima parte “oscura”, si dipanano degli accordi di tastiera accompagnati da un ritmo mid-tempo e da voci filtrate, ad evocare un logos “computerizzato”.

La successiva “Good Morning Fearmongering” riporta invece alla mente il sound elettronico di inizio anni Novanta di Intermix degli Inter-Mix, primo album di un side project di una delle figure primarie del genere, Bill Leeb, leader dei Front Line Assembly, all’epoca pubblicato da una label che ha fatto la storia del settore, la Third Mind Records.

Seguono quindi le movenze “stellari” di “Fake Me Deep, Murf”, dove si iniziano a trovare inserti di chitarra elettrica che poi ritorneranno anche in altri brani, come nel successivo “Bots’ Party”, le cui cadenze moderatamente ritmate si ritrovano anche in “Mid Journey To Freedom”.

 

La traccia più catchy dell’album invece, risulta sicuramente essere “I Love To Chat With You”, dove una serie arpeggi a cascata vengono elegantemente accompagnati da un vocale etereo, unito ad una serie di accordi pianistici evocativi.

Le eleganti note di questo ultimo brano (e del bel video che trovate in calce alla recensione) lasciano come sospesa una delle grandi domande sulla realtà virtuale, così come più volte trasposta in opere cinematografiche, ma che trova una declinazione pratica negli avatar tipici di molti social attuali: tra la realtà VERA e quella VIRTUALE, quale è la nostra personale posizione? La seconda potrà divenire un tecnologico “paradiso artificiale”? Diventerà una comoda via per sfuggire al tedio e/o alla frustrazione che accompagna le nostre vere esistenze?

 

Simili domande esistenziali riecheggiano anche nell’introduzione al volume La rappresentazione del mondo del fanciullo (Bollati Boringhieri) del celebre psicologo Jean Piaget, che nel 1926 scriveva: “Possiede il bambino, come noi, la credenza in un mondo reale, e la distingue dalle diverse finzioni del suo giuoco e della sua immaginazione? In qual misura distingue il bambino il mondo esterno da un mondo interno e soggettivo, e quali confini stabilisce tra l’io e la realtà oggettiva?”.

Al netto della semplificazione di cui mi scuserete, e rendendomi conto che la questione non può basarsi su generalizzazioni eccessive e non mediate culturalmente, vedetela come una provocazione al ragionare: se cambiassimo il termine bambino con quello di adulto e sostituissimo la locuzione "mondo interno" con "mondo virtuale", le stesse domande non si pongono anche di fronte alla cosiddetta "realtà aumentata"?