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REVIEWSLE RECENSIONI
Africamore - The Afro-funk side of Italy (1973-1978)
AA.VV.
2024  (Four Flies Records)
WORLD MUSIC BLACK/SOUL/R'N'B/FUNK
7/10
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05/06/2024
AA.VV.
Africamore - The Afro-funk side of Italy (1973-1978)
"Africamore" è un incrocio tra una raccolta e un pezzo di storia, quello che racconta delle discoteche italiane dal 1973 al 1978, dove si iniziava a essere influenzati dall'afrofunk e dal black mescolato al white europeo. Una storia di sound e sale da ballo. Un disco tributo ad un suono, ad una fase, e all’incredibile contributo della sua evoluzione e raggio d’azione.

Italia, metà degli anni Settanta. Discoteca di quelle coraggiose, dove i dj hanno il coraggio di mettere musica insolita. Il coraggio di far respirare altrove. In quegli anni la comunicazione con gli altri paesi c’era, non viaggiava via web bensì attraverso trasferte nelle capitali della musica europea, dove si compravano vinili e poi si scoprivano una volta tornati in patria.

È così che qualcuno di questi dj deve aver scoperto, in uno dei suoi viaggi a Berlino o Londra, frequenze nuove, influenze dell’africa sul funk, il black mischiato al white europeo. Musica da cui trasuda tutta la voglia di far ballare e tenere in pugno il proprio pubblico delle sale da ballo.

Una volta tornato in Italia, ciò che è successo è stato curioso quanto naturale. In quel momento si stava uscendo dal beat e abbracciando lo sdoganamento della fase hard rock, fino a quella più educata e cervellotica del progressive. I compositori di musica leggera stavano nel frattempo creando una stagione rosea la cui risacca arriva felicemente fino ai giorni nostri. Pensiamo a Piccioni, Plenizio, Morricone, i quali toccarono vertici ineguagliabili strizzando l’occhio a questi linguaggi appena più funk.

Eccola la fusione. Ecco ciò che troviamo in questa compilation targata Africamore. L’afrofunk che si scontra con le penne compositive italiane, gli arrangiamenti si mescolano fino a raggiungere un punto nuovo in cui l’inebriamento ci fa perdere l’orientamento e la certezza di trovarsi più da una parte o dall’altra.

 

Questa raccolta racchiude alcuni esempi di queste influenze e di ciò che si ascoltò nelle discoteche italiane dal 1973 al 1978. Ed è curioso come le percussioni di Fela Kuti si mescolino con le voci reverberate Morriconiane o di Frizzi. Il tipico sound di una batteria acustica registrata a nastro, con lo strapotere del charleston evidentemente rientrante in troppi microfoni d’ambiente e impossibile da sottrarre, chitarra wah a sinistra, organo a destra, che si alternano saltellando sul ritmo e consentendo al basso di destreggiarsi in melodie.

È curiosa questa fase di metà anni Settanta dove, e questo ne è un esempio, se cambi la batteria funk in blocco per sostituirla con una ritmica dub, ottieni una canzone perfettamente dub, come se tutto il resto fosse intercambiabile pur restando immutato. Questo è il quadro della opening track "L’ultima chance" di Walter Rizzati.

 

"Amore" dei Chrisma (successivamente noti come Krisma) continua il discorso spostandoci nettamente in un contesto cinematografico di commedia all’italiana, con quei tratti osé che tutti conosciamo. L’elettronica è l’elemento che fa la differenza nel contesto funk, insieme alle voci e ai sospiri femminili che fungono da vero e proprio arrangiamento, pensando il brano sotto un’immagine di cui sopra.

"Tabù Tubà" de I Robots continua affidandosi ancora ad un aspetto vocale, pur facendo a meno di un testo in italiano vero e proprio. Melodie e "Tabù Tubà" che ci tengono stretti nella morsa del ballo e del feeling africano, vezzeggiato o vero che fosse.

"Oh Caron" di Luca D’Ammonio comincia con un intro percussivo che sembra sempre sul punto di partire definitivamente, ma quella partenza non arriverà mai, lasciandoci ancora in balia di questo feeling danzereccio, che non è altro che la natura del pezzo.

 

La curiosa "Contrabbando di fagioli" (Ramasandiran Somusundara) sembra davvero registrata live tanta è la sporcizia che trasuda dalla linea di basso portante, corda vecchia, forse plettro. Incitamenti vocali, ritmo che parte ed è un tutt’uno. La ritmica è talmente incollata che non può che essere registrata insieme e non a parti separate, magari strings e dub vocali aggiunti dopo, ma basso batteria, e percussioni provengono dal solito punto e momento.

Il flauto traverso, che già riecheggiava da qualche canzone, prende il sopravvento nella successiva "Africa Sound" di Jean Paul & Angelique. Uno strumentale delizioso coadiuvato dal supporto dei cori che si alternano, che lo facciano in maniera melodica, singola o corale.

Tanta libertà. Tanta improvvisazione. Tanto bel suono che a quei tempi era gratuito (passatemi il termine) nel senso che gli studi analogici suonavano così, gli amplificatori (a valvole o transistor) avevano questa pasta sonora, i sintetizzatori erano agli albori del loro contributo in un ambito appena più popolare della sperimentazione cui erano stati relegati fino ad allora. Eppure gli arrangiamenti talvolta si assopiscono, come se il groove bastasse ed avanzasse vista la destinazione da sala da ballo.

 

Poi arriva "Kumbayero" di Albert Weyman (e quindi Weyman corporation) che mi contraddice istantaneamente, presentandosi con un groove deciso e ossessivo, caratterizzato da quella piccola scordatura sul basso che lo fa piacere all’istante, e mettendoci accanto un obbligato di due battute che fa il pezzo da solo. Solo di sax equalizzato come fosse un giocattolo lontano e piccolissimo. Chitarra che continua il discorso solistico e lo fa ad altissimo livello. Tiro e arrangiamento belli.

"Soul Makossa" di African Revival sta sulla stessa linea d’onda e tiene alto il livello di questa compilation, sia per quanto riguarda il groove, che per la scrittura e l’esecuzione. "The Voodoo Lady" di Lara Saint Paul confonde le acque tornando nel clima che ci garantisce il ballo continuo e senza troppi pensieri. Congas, voci feminili, uomini in lontananza, chitarre libere e rispettose, flauti, quell’intenzione in continua ed instancabile crescita. Ed ecco che siamo lì, intorno ad un falò in quell’unico spazio del bosco in qui non troneggiano gli alberi ed in cui si possa rendere grazie alla terra prima dell’avvento dell’oscurità.

"Why O" e le sue percussioni tengono il punto, insieme alla voce di Beryl Cunningham. C’è davvero poco di Italiano, eppure anche in questo caso la penna compositiva è tricolore; Paolo Olmi e Piero Vivarelli.

 

C’è tanto lavoro, tanta sapienza compositiva ma soprattutto si percepisce la febbre della scoperta di nuovi orizzonti. La voglia di farli propri e cambiare il proprio linguaggio. Augusto Martelli & The real McCoy, quell’Augusto Martelli che aveva scritto ed arrangiato fior di canzoni o jingle televisivo dagli albori degli anni Settanta fino al primo decennio del Duemila. Dico Casa Vianello per dare la più netta delle idee, ma si potrebbe anche nominare Mina, per cui ha arrangiato "Un anno d’amore /E se domani", oppure ancora sigle televisive come quella meravigliosa di Grand PrixIn questo caso c’è la testimonianza del suo lavoro insieme a Pino Presti e Tullio De Piscopo, appunto The Real McCoy, e si assapora l’essenza del periodo. La maestria dei musicisti conquistata dal sapore africano e percussivo.

Chiude il disco la più riflessiva "Prognosi Riservata" di M.A.A.G.O. caratterizzata dal ritmo appena più appoggiato che non disperde per questo motivo alcuna energia. La fine di un disco, questo AFRICAMORE, che si porta dietro malinconicamente la stessa fine di un periodo. Portatore però di qualcosa che non si è affatto esaurito, basti pensare ai Calibro 35, a Gianluca Petrella Cosmic Renaissance, C’mon Tigre ed a tutto ciò che ruota attorno al messaggio di afroamericano indissolubile. Un disco tributo ad un suono, ad una fase, e all’incredibile contributo della sua evoluzione e raggio d’azione.