Ultimissimi strascichi del Covid che vanno ad influire sul tour di Aldous Harding, all’epoca posticipato al 2023, quando il disco da promuove, Warm Chris, ha da poco compiuto un anno esatto. Lasciatemi dire che in questi nostri tempi potrebbe anche non essere un male. Un esempio banale partendo dalla mia esperienza: pur avendo adorato il precedente Designer (su Loudd avevamo anche pubblicato una mia intervista all’autrice), questo ultimo disco me lo sono perso. Vuoi che ci fossero altre uscite più urgenti, vuoi che in quel determinato momento avessi poca voglia di quel tipo di suoni, fatto sta che gli ho dedicato non più di un paio di ascolti e sono passato oltre, nonostante in giro si leggessero recensioni davvero entusiastiche.
L’arrivo in Italia della cantautrice neozelandese mi ha permesso dunque di riprendere in mano quel lavoro che in caso contrario sarebbe quasi sicuramente finito nel mio dimenticatoio personale.
Di nuovo, bisognerebbe davvero ricominciare a perdersi le cose e ad essere contenti di farlo, ammettere candidamente di non essere sul pezzo su un determinato argomento ed aggiungere con serenità che di questa mancanza non ce ne importa assolutamente nulla. Dando per scontata l’utilità di un atteggiamento del genere per la nostra salute mentale, bisogna anche ammettere che Warm Chris è un disco che sarebbe un peccato trascurare.
Aldous Harding si è messa nuovamente nelle mani di John Parish, per un lavoro che suona molto diverso da quello precedente, spostandosi dall’Alt Folk raffinato verso una dimensione maggiormente Roots Oriented. Rispetto ai primi due dischi però, dove si notava un carattere più acerbo della scrittura ed una generale dipendenza da Joni Mitchell e da un classico songwriting Folk, qui lo spettro d’influenze è più ampio, sia a livello di arrangiamento, sia nello spettro vocale: è quest’ultimo fatto a balzare all’orecchio maggiormente, il modo con cui Hannah Sian Topp è riuscita a modulare la sua voce su diversi stili e registri, alcuni completamente inediti, tanto che ad ascoltarlo si ha spesso l’impressione di un lavoro cantato da differenti interpreti.
Questa sera, in occasione della prima data italiana dopo diversi anni, a memoria la prima a Milano, il Santeria risulta tutto esaurito. Un ottimo risultato, certificato anche nel corso del concerto dalle reazioni calde ed affettuose del pubblico tra un brano e l’altro, oltre che dal silenzio e dalla concentrazione con cui è stato seguito l’intero concerto.
In apertura c’è H. Hawkline, pseudonimo di Huw Evans, compagno della Harding nonché suo collaboratore di lunga data, ha suonato nei dischi e la accompagna dal vivo (tra le altre cose, è anche membro della live band di Cate Le Bon). Negli anni ha portato avanti una carriera solista di tutto rispetto, arrivata col recentissimo Milk for Flowers a quota cinque album.
La sua esibizione è piacevole ma viziata dalla scelta, a mio parere sciagurata, di portarsi dietro tutte le basi dei pezzi, riprodotte attraverso un registratore a bobine che ha dato se non altro un tocco vintage al tutto. Chitarra e voce da sole sarebbero bastate per rendere fruibile l’Art Pop deliziosamente sixties che ammanta le nuove canzoni. La presenza delle parti pre registrate ha invece contribuito a creare una fastidiosa sensazione di artificiosità, da cui non sono riuscito a liberarmi nonostante poi, a conti fatti, la performance in sé sia stata più che buona. Speriamo, a questo punto, di poterlo vedere in futuro assieme ad una vera e propria band: così si è trattato di una via di mezzo senza troppo significato.
La band se l’è per fortuna portata dietro Aldous Harding, che è accompagnata da quattro elementi tra cui spiccano, oltre allo stesso Evans, che si alterna tra chitarra e basso, Mali Llywelyn alle tastiere, responsabile tra le altre cose di tutti i suoni orchestrali di cui si avvalgono molti episodi del nuovo disco (anche se la tromba su “Tik Tok” viene suonata dal vivo).
Gli arrangiamenti non sono niente di che, bisogna ammettere, tendono a mantenersi lineari e a tratti scolastici, così che un po’ si perde tutto il lavoro fatto da John Parish in sede di produzione. In generale comunque suona tutto molto bene, c’è un bel tiro ed il giusto livello di feeling ed intensità.
Sian Topp è ovviamente la grande protagonista della serata e guardarla affrontare le canzoni ci proietta in modo misterioso all’interno di una dimensione dove non vigono le normali leggi dello spazio-tempo e dove sembra di avere a che fare con qualcosa che non può essere detto, allo stesso tempo sacro e intoccabile.
I suoi movimenti aggraziati e allo stesso tempo innaturali, l’espressione del volto a metà tra chi è in preda a un rapimento mistico e chi è sul punto di esternare una verità inconfessabile, mostrano un tutt’uno con la creazione artistica, un’identificazione totale con le proprie canzoni che porta il concerto oltre il livello della mera performance, per approdare ad un luogo dove ogni esecuzione sembra avere a che vedere con la verità stessa dell’esistenza.
C’è una tensione palpabile che trasmette a tutta la band e che si riverbera nella resa magnifica dei singoli brani, sia in quelli del nuovo album, con tastiere più presenti e con un maggiore brio nell’andamento generale, che in quelli appartenenti al vecchio repertorio, nella maggior parte dei quali la Harding imbraccia una chitarra acustica, si siede e conduce esecuzioni vibranti di tensione e a tratti drammatiche.
Sono probabilmente i brani di Designer a rappresentare i migliori momenti della serata: le varie “Treasure”, “Fixture Picture”, “Zoo Eyes” (messa in scaletta solo nelle ultime date), “The Barrel” sono quelle in cui la band dà il meglio di sé e dove anche a livello vocale si rasenta la perfezione.
Si pesca poco dalle cose più vecchie ma il Folk scuro e strascicato di “Imagining my Man” è sufficientemente bello da non far rimpiangere altro.
Ad un certo punto il suo coinvolgimento estremo nelle canzoni, il suo essere totalmente identificata con quel che avviene sul palco, fa sì che debba interrompere “Bubbles” dopo poche note, perché non riesce a smettere di ridere, forse per l’emozione, forse per la tensione, sta di fatto che si calma solo quando imbraccia la chitarra e si tuffa nel pezzo successivo. Il pubblico non se la prende e anzi, la applaude e la incoraggia con affetto. Del resto lei è così, accade tutto sul momento, c’è ben poco di artificioso o pianificato in anticipo ed anche nel finale, quando dopo una spigliata “Leathery Whip” torna per i bis e si congeda dopo una splendida “Designer”, lasciando fuori “She’ll Be Coming Round the Mountain”, prevista invece dal programma, non fa altro che assecondare lo stato d’animo del momento.
In un modo o nell’altro, fuoriclasse assoluta.
Photo courtesy: Lino Brunetti