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REVIEWSLE RECENSIONI
12/11/2018
Black Peaks
All That Divides
Denso, multiforme, viscerale, pesante ed evocativo. L’ordito e la trama dell’arazzo tessuto dai Black Peaks per il loro nuovo lavoro vi farà dimenticare che non li conoscevate prima e ringrazierete di averli conosciuti adesso.

I Black Peaks al momento non avranno ancora la fama di cui godono molti dei colleghi a cui hanno avuto l’onore di aprire i concerti (e a cui in diversi frangenti somigliano), come Deftones, System Of A Down, The Dillinger Escape Plan, Prophets of Rage, Mastodon, Architects, Marmorzets e A Perfect Circle, ma la situazione, dopo quest’ultimo All That Divides, merita di essere aggiornata.

Dire di Black Peaks significa parlare di quattro ragazzi di Brighton, che dal 2012 realizzano un alternative-progressive-rock-post-hardcore pesante e multiforme, ricco di influenze e dalla tessitura complessa. Con pochi strumenti e molta attenzione tecnica e compositiva, i quattro inglesi creano atmosfere dense e scure, talvolta quasi opprimenti, in cui riescono sempre a dirimersi con eleganza tra scream, melodie, groove e riff, per creare un arazzo di cui apprezzare sì le singole tracce, ma ancor di più l’ordito e il risultato complessivo.

Dopo il debutto con un EP auto-prodotto nel 2014, Closer to the Sun, sotto il nome di Shrine, dopo il primo LP nel 2016 sotto Sony, Statues, e dopo un intenso programma di live nel corso del 2016 e del 2017 a supporto di alcuni dei gruppi più importanti della scena e il cambio di bassista alla fine del 2017, con il 2018 i Black Peaks sono passati alla Rise Records e hanno realizzato quello che è probabilmente il migliore album della loro ancora breve carriera. Prodotto, registrato e mixato da Adrian Bushby, vincitore di due Grammy Award per Resistance dei Muse e Echoes, Silence, Patience & Grace dei Foo Fighters, All That Divides porta con sé l’esperienza di una solida gavetta fatta di sudore sui palchi e in sala prove, unita alla sapienza di una produzione che rende giustizia alla maturità raggiunta e al concept che i Black Peaks portano alla luce nell’autunno del 2018.

Il suggestivo artwork del disco, realizzato anche questa volta dall’ispirata concittadina e visual-artist Eva Bowan, rappresenta bene lo spirito del contenuto sonoro, fatto di fusioni di trame organiche ed elettroniche, dove la sensazione di solitudine del blu e della violenza dei pochi tocchi di rosso si unisce alla geometria, al contempo opprimente ed “escapologica”, dei quadrati concentrici che compongono la copertina dell’album.

Limitazioni e libertà sono infatti alcuni dei temi contenuti nel disco poiché, come spiega lo stesso Will Gardner, cantante del gruppo, quest’album rappresenta la paura di un futuro in cui la libertà è limitata. Una paura che ha i suoi fondamenti nell’osservazione di un presente in cui i cambiamenti politici (inglesi ed esteri) e la continua tensione al conflitto non solo hanno messo in discussione le libertà personali e di viaggio di molte persone, ma hanno anche diviso pesantemente individui, famiglie, relazioni e paesi. La reazione che i quattro ragazzi hanno avuto modo di metabolizzare rispetto a tutto questo si è fatta musica, dandosi il coerente titolo di “Tutto ciò che divide”.

Le 9 tracce su cui si strutturano i 50 minuti dell’ultimo lavoro dei Black Peaks permettono il soggiorno in un labirinto magnetico ed inequivocabilmente evocativo, profondamente empatico, fatto di emozioni intime e viscerali, dalla fragilità più vulnerabile alla rabbia più estrema. Dal primo all’ennesimo ascolto trovare le tracce più riuscite diviene un compito arduo: a seconda delle influenze sonore a cui si è più legati o del momento in cui si ascolta il disco, c’è sempre una canzone diversa su cui puntare maggiormente (“Electric Fires”, “Across The Great Divide” o “Slow Seas”, ad esempio, sono sicuramente molto interessanti, ma poi si guarda a ciò che rimane fuori e si vorrebbe allungare la lista: perché tenere fuori “Fate I & II” o “Can’t Sleep”? e le altre quattro che mancano all’appello?). Ogni pezzo ha infatti il suo senso all’interno del disegno complessivo e un solo viaggio all’interno del dedalo di suoni non è sufficiente. Immergere orecchie e animo nel vortice è d’obbligo, uscirne è difficile e facoltativo. A voi buon viaggio, naviganti.