Nel gennaio 2024 Letter to Self aveva inaugurato l’anno musicale e se n’era parlato molto bene anche grazie a tutto l’hype generato dai due EP precedenti. Per quanto mi riguarda, mi ero espresso in maniera favorevole, ma quel debutto mi era sembrato un po’ troppo simile alle fin troppe cose uscite negli ultimi tempi in fatto di Post Punk e affini, e avevo rimandato la questione al futuro sophomore.
Oggi possiamo dirlo senza troppi problemi: gli Sprints si stanno avviando pericolosamente a diventare uno dei gruppi più validi della scena indipendente.
In realtà chi aveva avuto modo di vederli dal vivo me lo aveva già detto; in effetti la band ha suonato più di cento show per promuovere l’album, comprese due apparizioni a Glastonbury che, trasmesse in streaming, hanno senza dubbio giovato alla promozione delle loro capacità. Io, che i concerti streaming non li guardo mai, ho dovuto aspettare le nuove canzoni, per realizzare che il talento che all’esordio pareva ancora ad una dimensione potenziale, si è ora manifestato in tutto il suo fulgore.
E quindi siamo ancora qui a parlare di Irlanda e ad interrogarci su che cosa davvero ci sia nel dna di questo paese, per sfornare tanti talenti in un lasso di tempo così concentrato (oltre alla musica ci sarebbe anche la letteratura, con una generazione di talentuosi romanzieri come Sally Rooney, Paul Murray e Paul Lynch, di quest’ultimo recentemente ha parlato anche Karla Chubb, oltretutto): qualunque sia la ragione, il presente passa da Dublino e dintorni, con quella dimensione tipicamente famigliare che ha fatto sì che quasi tutti i futuri membri degli Sprints si conoscessero da bambini o poco più, una quotidianità spesa tra i banchi di scuola e la sala prove, un modo spontaneo di vivere la propria vocazione musicale che negli ultimi anni sembrava superato ed è probabilmente una delle ragioni dietro l’esplosione di tutti questi gruppi.
È stato un periodo intenso, non privo di difficoltà e cambiamenti: il chitarrista Colm O’Reilly ha lasciato, ed è stato sostituito da Zac Stephenson. Sul fronte personale, Karla Chubb ha iniziato una relazione nuova, dopo la destabilizzazione dovuta alla fine di quella precedente, durata otto anni. Nel frattempo, in conseguenza della crescita della visibilità, tutti e quattro hanno mollato i rispettivi lavori, con la scommessa di poter vivere solo di musica. Al momento ce la stanno facendo e senza dubbio ce la faranno, ma è evidente che si tratta di un ulteriore elemento di incertezza da dover guardare.
In tutto questo, i lavori per il nuovo disco sono andati avanti senza pause, nell’urgenza di comunicare il presente (“Guardo fuori dalla finestra e il mondo non mi è mai sembrato così brutto. Scrivo ogni giorno perché accadono così tante cose ogni volta” ha dichiarato di recente la cantante e chitarrista) e di non perdere lo slancio di un ulteriore sviluppo artistico.
All That is Over non è stilisticamente diverso dal suo predecessore, trasuda una crudezza estetica e sonora che prende le mosse direttamente da nomi come Siouxsie and the Banshee e Pj Harvey, due degli idoli musicali di Karla, ed uno spettro di rimandi che oscilla tra l’ormai inflazionato Post Punk ed una robustezza chitarristica e melodica che è più tipica degli anni ’90. L’intento lo hanno esplicitato loro stessi: recuperare un decennio fortemente basato sulla sostanza, in contrapposizione ad un’epoca odierna fin troppo incentrata sulla sterilità dell’immagine.
Poche differenze dunque, l’essenza del gruppo rimane intatta. Semmai, a cambiare è la prospettiva della scrittura, che si è fatta più varia e fantasiosa, nella ricerca di soluzioni che, seppure non innovative, risultano fresche e sempre vincenti, con una maggiormente acquisita capacità di far evolvere le dinamiche dei brani.
Soluzioni non scontate già dal modo in cui scelgono di iniziare il disco, con “Abandon” che è quasi una ballata, un basso funereo, una chitarra appena accennata, un cantato salmodiante ed una generale atmosfera dark, partenza decisamente inusuale per un gruppo che si era fatto conoscere soprattutto per la ruvidezza sonora.
La successiva “To the Bones” sembra muoversi nella stessa direzione, salvo poi caricarsi progressivamente, in un’esplosione di chitarre che ci riporta in pieno nei territori più familiari al quartetto.
Con “Descartes”, “Need” e “Beg” emerge tutta la violenza Post Punk del quartetto, bravissimo nel gestire le accelerazioni ritmiche ed una pesantezza glaciale che sembra a tratti mutuata dai loro colleghi e connazionali Chalk. Tra le migliori c’è poi “Rage”, mid tempo ossessivo e devastante, a tratti stemperato dalla presenza di una chitarra acustica nella sezione ritmica. Interessante il testo, che cita la cosiddetta “preghiera della serenità” del teologo protestante Reinhold Niebuhr. Potenziale tormentone e futuro classico, non vediamo l’ora di ascoltarla dal vivo.
Oscurità e crescendo da manuale anche in “Something’s Gonna Happen”, mentre “Pieces” è un’altra mazzata veloce che si fa notare soprattutto per l’efficacia del riff portante. Più melodica e catchy “Better”, una di quelle che risente di più del recupero degli anni ’90, mentre “Coming Alive” riprende in maniera un po’ pedissequa la lezione di shame e Fontaines d.c. e proprio per questo risulta meno interessante.
Chiude, e lo fa in maniera splendida, “Desire”, incentrata su una progressione ritmica da antologia, dimostrazione di come quando catalizzano la rabbia, gli Sprints siano ormai tra i migliori sulla piazza.
Disco strepitoso, questo All That is Over: senza innovare chissà che cosa, dimostra che una certa formula che credevamo ormai inflazionata, può ancora risultare vincente, se si scrivono canzoni con spensieratezza e liberi da condizionamenti.
A marzo saranno finalmente dalle nostre parti: fossi in voi non me li perderei.