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REVIEWSLE RECENSIONI
17/07/2018
Cowboy Junkies
All That Reckoning
Non sono davvero molte le band che dopo trent’anni di carriera riescono a mantenere dritta la barra del timone e ripresentarsi sulle scene con un disco di tale spessore emotivo e compositivo

Sono trascorsi ben sei anni da The Wilderness, quarto volume della Nomad Series, uscito nel 2012, senza che si avessero notizie dei Cowboy Junkies. Un lasso di tempo considerevole, soprattutto per gli attuali standard dell’industria discografica, ma sei anni, a dire il vero, spesi benissimo (suonando molto dal vivo, registrando talvolta in studio), visto che il risultato è un disco splendido, uno dei migliori nella carriera della band canadese.

Se l’esperienza con la Nomad Series aveva condotto i Cowboy Junkies su strade diverse, decisamente più sperimentali, All That Reckoning segna, invece, una sorta di ritorno al passato, a un suono che potremmo definire come classico, e a cui la band ha lavorato con lentezza, limando note e arrangiamenti, e prendendosi, come dicevamo, tutto il tempo necessario perché il risultato fosse quello voluto.

Non aspettatevi però un disco che suoni esattamente come Trinity Sessions (1988) e The Caution Horses (1990), i due lavori più rappresentativi dei Cowboy Junkies: pur mantenendo inalterato il proprio marchio di fabbrica, All That Reckoning è, infatti, connotato, almeno a tratti, da una sferzante elettricità, figlia del lungo periodo passato in tour dalla band e da una dimensione live che, durante la fase di scrittura, era divenuta quotidiana e predominante.

Sorprenderanno, quindi, e in positivo peraltro, brani come Sing Me A Song e Missing Children, due canzoni bellissime, tra le migliori in scaletta, che hanno un’anima molto rock e che suonano decisamente rumorose rispetto ai consueti standard. Sono, peraltro, anche i due episodi più immediati di un disco che, essendo stato pensato a lungo, non è facilmente assimilabile dopo pochi ascolti, ma ha bisogno di tempo per poter essere colto in tutte le sue sfumature.

Dategli, quindi, il tempo che merita, perché la bellezza lentamente arriverà alle vostre orecchie e al vostro cuore: in primis, grazie alla voce di Margo Timmins, a cui il tempo non ha tolto un briciolo del suo immenso fascino, e poi, grazie alla scrittura del fratello Michael, la cui penna, icastica ma affabulante, regala momenti di autentica perfezione con il blues disciolto in liquido amniotico della riverberata When We Arrive, negli echi velvettiani della sublime The Things we Do To Each Others o nei languori nostalgici di Shining Teeth, in cui Margo regala una prova vocale da pelle d’oca.

Non sono davvero molte le band che dopo trent’anni di carriera riescono a mantenere dritta la barra del timone e ripresentarsi sulle scene con un disco di tale spessore emotivo e compositivo. Un disco che, come al solito, si tiene lontano dai compromessi, a partire dalla copertina, forse la più bella vista nel 2018, capace al contempo di inquietare e affascinare. Esattamente come la musica che contiene.