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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
03/11/2025
Live Report
Amaro Freitas, 02/11/2025, JazzMi, Teatro Triennale, Milano
Jazz, echi dall'Amazzonia e melodie famigliari. L'universo sonoro di Amaro Freitas dal vivo è un'esperienza da non perdere.

Vorrei intanto concentrarmi su due luoghi comuni che un concerto di piano solo di Amaro Freitas è in grado di sfatare. Grazie alla confutazione del primo, è facile che si radichi nel pubblico la certezza che il pianoforte sia principalmente uno strumento a percussione, e vi posso assicurare che si tratta di una verità che lascia attoniti anche i bambini, quando a scuola condivido con i miei alunni questa visione in controtendenza che ho imparato dal jazz. Sapete come funziona, vero? La pressione manuale del tasto aziona meccanicamente un martelletto che colpisce la corda corrispondente. E al netto della vibrazione che libera la nota, non è difficile percepire il rumore dell’impatto che si consuma all’interno del telaio. La prova si ottiene - come fa Freitas sul palco - forzando con le mani o con qualche oggetto l’immobilità delle corde, con il suono sordo restituito che sprigiona tutta la magia degli armonici. 

Il secondo, che è più un pregiudizio, è che le influenze di stili come bossa nova e samba, veri cliché del jazz brasiliano, si possono superare con una ricerca della tradizione rivolta in aspetti culturali più remoti e nascosti e con una mentalità musicale contemporanea e aperta alla contaminazione. 

In realtà ne esiste anche un terzo da smentire, e in questo Amaro Freitas c’entra solo in parte. I concerti che iniziano alle cinque del pomeriggio hanno un fascino unico, altro che storie. Ti siedi in sala che è ancora chiaro e, quando esci, non è già il momento di coricarsi, ma in questi casi le strutture che li ospitano non devono prendere impegni per il prosieguo della serata, limitando fortemente l’esecuzione dei bis degli artisti che si esibiscono perché, nell’immediato, è prevista un’altra iniziativa. “Another band”, si scusa il jazzista di Recife, muovendo le braccia con un gesto inequivocabile per mostrare gli strumenti coperti da un telo accatastati dietro il suo piano a coda, mentre il pubblico gli tributa i meritati scrosci di applausi conclusivi e svariati espliciti inviti a suonarne ancora una. Ed è a quel punto che mi rivolgo al mio vicino di posto, la persona che la lotteria dei biglietti mi ha assegnato come compagno di viaggio musicale e con il quale avevo già scambiato quattro chiacchiere prima dell’inizio del concerto. Gli chiedo se gli sia piaciuta l’esibizione e lui, con il suo italiano stentato (era un inglese che lavora in Italia) mi ha risposto di no. “È mancato il flusso”, ha aggiunto senza mezzi termini. Un’intuizione - dalla quale mi dissocio, sia ben chiaro - che mi ha fatto subito intendere a cosa si riferisse.

Ma facciamo un passo indietro. Quando si spengono le luci, segnale inconfondibile che lo spettacolo sta per cominciare, riesco a sbirciare il display del suo smartphone nell’istante prima che dissolva a nero. Segna le cinque del pomeriggio spaccate, nemmeno un minuto di ritardo. E mentre Amaro Freitas fa il suo ingresso sul palco, provo un’emozione fortissima. Mi accingo a vedere dal vivo quello che i più accreditati esperti indicano come una delle principali rivelazioni del jazz degli ultimi anni. Come dar loro torto.

L’esibizione, in totale 90 minuti precisi di concerto, segue una struttura - che ho letto essere consolidata nei live di Freitas - in tre parti distinte. Il flusso, appunto. 

La prima è quella smaccatamente jazz in cui emerge il suo stile e la sua verve fortemente ritmica e percussiva. Improvvisazioni fisiche e di pancia che nascono da impulsi restituiti attraverso tutto il corpo, più che da costruzioni armoniche e schemi dettati da tecnica e maniera a valle di uno studio musicale canonico. Freitas mantiene il controllo dello strumento con un’arte invidiabile. Il suo tocco alterna esplosioni di energia a spazi di sospensione, quasi meditativi, facendosi interprete di una conversazione tra densità e sospensione acustica. La sua metrica risulta disarticolata, i groove si compongono irregolarmente, quasi sempre in un dispari spiazzante e free, un tempo nel quale i pattern si espandono e si contraggono in modo imprevedibile, come se il ritmo stesso fosse una materia da plasmare. L’improvvisazione si riversa sull’ascoltatore, la platea si sintonizza sui parametri della sua trance dinamica che si irradia seguendo schemi ripetuti ad libitum come motore di trasformazione.

Evaporato tutto ciò, Amaro Freitas introduce al pubblico la seconda parte del suo live, e qui il suo essere diversamente jazzista brasiliano fa la differenza. Dal corpo del piano a coda che gli è stato messo a disposizione - e per il quale non lesina ringraziamenti agli organizzatori della rassegna JazzMI, probabilmente avere sottomano uno strumento performante non è così banale - mostra quelle che lui definisce estensioni necessarie all’esecuzione dei brani successivi. Si tratta di costrutti musicali, già cristallizzati nel suo ultimo album Y'Y, nati dal desiderio di dare voce all’Amazzonia, alla natura e ai popoli che la abitano, e all’attenzione che merita la foresta sudamericana in quanto luogo madre dell’intera umanità. Con il supporto del fonico, il musicista dà vita a un’articolata sovrapposizione di loop riprodotti da delay, riverberi ed effetti applicati sulla sua voce e sui rudimentali strumenti a fiato che si materializzano nelle sue mani, per una resa altamente suggestiva ed emozionante. Il risultato di tutto ciò è ai limiti del soprannaturale. A occhi chiusi, mi immergo in un panorama sonoro che non ho mai visto né sentito, in un’esperienza di benessere riconducibile a un’estasi. 

Infine, tra le bizzarre estensioni del piano a coda, Freitas mostra delle mollette da bucato che, fissate nei punti giusti delle corde, trasformano il piano in un inusuale sintetizzatore/campionatore interamente acustico, una metamorfosi propedeutica alla parte conclusiva del concerto. Originali suoni percussivi che, inframezzati alle note lasciate libere, aumentano la portata espressiva dello strumento. “Sono mollette che mi ha dato mia mamma”, aggiunge Freitas alla sua presentazione. La prova che in questo frangente la vera protagonista sia la famiglia, in un’accezione che trascende i meri consanguinei per abbracciare tutto il pubblico in sala, invitato a intonare melodie ancestrali rintracciabili nell’universo domestico comune che il musicista, dal palco, accompagna alla sua maniera. Non a caso, come unico bis, propone di lì a poco una evocativa versione di “Clube Da Esquina” di Milton Nascimento, durante la quale incoraggia il pubblico di origini brasiliane - seguito poi da tutto il resto dei convenuti - ad intonare in coro la sua intima e toccante esecuzione.

Il flusso, dicevamo. Dalla mia postazione, con un quadro perfetto delle sue mani sulla tastiera, ho colto perfettamente - almeno, così mi pare - il leitmotiv del concerto, il sentimento e tutto il mondo che Amaro Freitas ci ha condiviso durante la meravigliosa anomalia di un’esibizione pomeridiana, una cosa davvero di altri tempi. La sua musica ha fatto sì che la sua connessione artistica con la natura si sia estesa verso il pubblico, verso di me. Da questo punto di vista, Freitas è una sorta di sacerdote, un vero e proprio oracolo tra l’invisibile e il visibile, tra il suono e la nostra anima, quella collettiva e quella individuale.