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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
01/10/2018
Baustelle
Amen
Ci sono e ci saranno sempre i fan della prima ora e io stesso adoro le loro prime cose, così naïf e artigianali. Ma se dovessimo consegnare i Baustelle alla prospettiva storica, secondo quel giochino che mi piace tanto fare, allora bisognerebbe farlo con questo lavoro.

“Amen” è il quarto disco dei Baustelle ed è importante per diversi motivi. Scrivo queste righe perché nei giorni scorsi mi sono ritrovato ad ascoltarlo di nuovo dopo parecchio che non lo riprendevo più in mano. Sabato 29 settembre il gruppo ne festeggerà il decennale risuonandolo interamente dal vivo, in versione (così sembrerebbe), rivisitata.

L’ho riascoltato due o tre volte dall’inizio alla fine e ciò che ne è scaturito è stato talmente interessante, che ho deciso che avrei dovuto scriverci qualcosa sopra.

Da un punto di vista strettamente autobiografico, “Amen” è decisivo non solo perché è il disco con cui li ho scoperti ma anche perché lo acquistai nella stessa settimana in cui uscì. La cosa non è banale per niente: nel 2008 ero già un adulto fatto e finito, lavoravo a pieno ritmo da cinque anni e scrivevo ancora per un sito di Heavy Metal. I miei ascolti si erano già notevolmente ampliati ma della cosiddetta “scena indipendente italiana” conoscevo ancora poco. Se si eccettuano band più anzianotte come La Crus, Afterhours, Marlene Kuntz, Bluvertigo, che seguivo da diverso tempo, il resto mi era ancora sconosciuto o quasi.

Così mi parlarono dei Baustelle, perché “Charlie fa surf” era appena diventata una hit, il nome era sulla bocca di tutti, per cui un amico (che poi è il solito che mi ha introdotto a gran parte delle band che ancora oggi amo di più) credette forse arrivato il momento anche per me di scoprire quell’oscuro gruppo di Montepulciano (Badia, per l’esattezza) che però da un paio d’anni tanto oscuro non era più.

Per la verità ricordo anche un particolare interessante, che sarebbe da approfondire: lo stesso amico mi disse che ormai erano diventati gli idoli dei ragazzini e che quel singolo in questione lo cantavano tutti. All’epoca insegnavo alle medie e quella fascia di età era decisamente troppo giovane per la proposta di Bianconi e soci. Quando però più tardi li vidi per la prima volta dal vivo, mi trovai davanti una pletora di universitari casinisti e infighettati e parecchi trentenni appassionati di musica e un po’ decadenti. Nulla a che vedere con le orde di adolescenti urlanti che frequentano oggi i live di Coez, Carl Brave X Franco 126, Ghemon, Coma_Cose, Calcutta e tutti i più importanti nomi della valanga It Pop.

Per carità, sicuramente di liceali che ascoltavano Baustelle, Le luci della Centrale elettrica, Perturbazione e compagnia bella ce ne saranno stati, ma io ho sempre avuto l’impressione, almeno dal punto di osservazione tangenziale che occupavo allora, che questa roba qui avesse un contenuto per così dire più “adulto”, che intercettasse meno quello che accadeva nel presente, che fosse più intellettuale (passatemi il termine, per favore) e meno ammiccante. Ma questo lo riprenderò dopo.

Tornando ad “Amen”, il disco mi piacque molto. Anzi, moltissimo. Lo consumai letteralmente, per giorni interi non ascoltai nient’altro, dimenticai tutti i dischi che avevo da recensire, in qualche modo quell’uscita segnò ed indirizzò la mappa dei miei ascolti per tutto il decennio a venire. Non andai a vedere il tour, però. Se provo a ricordarmi perché, non ci riesco. Vi furono parecchie date, sono sicuro che da Milano e dintorni ci passarono più di una volta, oltretutto familiarizzai piuttosto in fretta anche col resto della loro discografia; perché diavolo non ci sono andato? Rimarrà uno dei grandi misteri irrisolti della mia vita musicale, temo. L’unica cosa certa è che quando finalmente andai ad un loro concerto era già uscito “I mistici dell’Occidente” e le canzoni di “Amen” ebbero uno spazio ridottissimo in scaletta (credo che ne furono suonate solo due). Inutile dire che mi incazzai non poco ma era colpa mia, c’era poco da fare.

La mia storia c’entra relativamente, comunque. “Amen” è il disco più importante della storia dei Baustelle perché è quello che meglio ne ha espresso la potenza creativa, che meglio ne ha sintetizzato la molteplicità di spunti e di influenze, quello suonato meglio, prodotto meglio, con le canzoni migliori.

Ironico, se vogliamo: Fabrizio Massara, tastierista, principale arrangiatore e compositore, l’altra metà dei Baustelle assieme a Francesco Bianconi, se n’era andato subito dopo le registrazioni de “La malavita”, il primo disco uscito per la Warner, quello della grande consacrazione. C’erano stati forti dissapori col produttore, Carlo Ubaldo Rossi: era la prima volta che il gruppo veniva seguito da un grande nome, le pressioni erano molte e le divergenze tra i due sulla direzione da seguire furono parecchie.

Ancora oggi si fantastica su che cosa sarebbe successo se fosse rimasto (i rapporti col gruppo si erano incrinati ma non al punto che fosse impossibile ricostituirli) e, paradossalmente, è accaduto l’impensabile: se “La malavita” era, da molti punti di vista, il disco che ci si sarebbe aspettati dai Baustelle in versione major, “Amen” suonava molto più variegato e sperimentale, come se la lezione del “Sussidiario illustrato della giovinezza” fosse stata ripresa e declinata al nuovo livello di maturità raggiunto dal gruppo.

Perché se è vero che col quartetto di apertura (“Colombo”, “Charlie fa surf”, “Il liberismo ha i giorni contati”, “L’aeroplano”), i nostri inanellavano probabilmente i più bei pezzi della loro carriera, esempi scintillanti di scrittura Pop a tutto tondo, straordinariamente radiofonici ma al tempo stesso per nulla scesi a compromessi con la banalità e la leggerezza, il resto della scaletta è molto meno lineare, tra sperimentazioni tra il serio e il faceto (“Baudelaire”, “Panico”, “Antropophagus”) ed incursioni nel territorio dei chansonnier, prive però ancora della fastidiosa pretenziosità che avrebbero assunto in seguito (“L”, “Dark Room”, “Andarsene così”).

Il tutto condito con uno spettro vastissimo di arrangiamenti, che vanno dall’elettronico all’orchestrale (musicisti veri, non certo campionati) e un vasto numero di ospiti, anche illustri, da Beatrice Antolini all’etiope Mulatu Astatke, leggenda della musica africana, fino ad Alessandro Alessandroni, noto soprattutto per aver suonato in molte delle colonne sonore di Ennio Morricone (suo, per intenderci, il celeberrimo fischio de “Il buono, il brutto e il cattivo”).

Un disco profondo anche dal punto di vista testuale: se i primi due lavori prediligevano ancora i toni ironici, che venivano stemperati via via su “La malavita”, questo è probabilmente l’affresco più drammatico del reale che Bianconi abbia mai dipinto. C’è infatti un’analisi cinica e a tratti spietata della società occidentale, immersa in pieno in quella che già da un pezzo veniva chiamata “postmodernità”.

C’è la lettura “classista” della serie TV “Colombo”, dove spetta ad un investigatore trasandato fare luce sull’orrore che si nasconde dietro le esistenze scintillanti del bel mondo di Los Angeles. C’è il ritratto spietato dei giovani di “Charlie fa surf”, ironico ma anche fin troppo crudo, di un’esistenza immersa in emozioni forti e drammaticamente svuotata di significato. E poi “Il liberismo ha i giorni contati”, che per certi versi anticipava gran parte dello spaesamento socioculturale delle giovani generazioni, con le loro lauree non sfruttate ed un senso di inutilità sempre più incombente. Ancora, una riflessione sul rapporto tra la realtà la e sua trasfigurazione poetica in “Baudelaire”, svolta attraverso una straniante processione di figure iconiche di ogni tempo, da Pasolini a Socrate, da Van Gogh a Piero Ciampi, unificati tutti dalla figura del grande francese.

“Antropophagus” sarebbe probabilmente impubblicabile oggi, con il suo elogio del mangiar carne, non importa se di cane o di uomo (c’è, ben nascosto per i veri nerd, un campionamento di batteria tratto dalla colonna sonora di “Cannibal Holocaust”, b movie di culto molto amato da Bianconi) ma il suo bridge “There is No Sushi, No Corso Como” ha mantenuto intatto il proprio impatto anche a distanza di anni.

Ci sono poi un paio di brani che hanno a che fare con la storia, remota e più recente: ne “L’uomo del secolo” si dà voce alle memorie di un vecchio comunista che ha visto il fascismo, ha fatto la guerra, ha disertato, che vive in un mondo molto più libero, permissivo, per molti versi sereno, ma in cui lui stesso non vi si riconosce più. Molto più drammatica e passibile di molteplici letture è “Alfredino”: l’omonimo protagonista della tragedia di Vermicino era coetaneo del cantante. Nel pezzo, che ha un andamento duplice, quasi da marcetta nelle strofe (narrate dal punto di vista del bambino), drammaticamente solenne nel ritornello, che assume invece la focalizzazione esterna. In esso c’è sia la perdita dell’innocenza, da parte di un bambino che per la prima volta nella vita prende coscienza del fatto che le cose possono finire male, ma soprattutto la spietata constatazione che il circo dei reality show, lo sciacallaggio mediatico, il voyeurismo da tragedia, è probabilmente iniziato in quel lontano giugno del 1981.

E poi “Aeroplano”, forse il più bel brano composto da Rachele Bastreghi, ormai completamente a proprio agio sia con la scrittura che con l’esecuzione vocale, nel tempo divenuta il grande valore aggiunto di questa band. È una ballata pianistica nostalgica e sensuale, dove la fine di un amore viene solo freddamente registrata, la domanda sul che cosa resta solo appena accennata, sullo sfondo di un impassibile cinismo che fonde l’assenza dell’amato con la guerra in Iraq allora in corso (l’aeroplano del titolo è un bombardiere americano). Chi scrive ha sempre amato particolarmente questo episodio, compresa la versione ricca di Synth che ne è stata recentemente riproposta durante il tour de “L’amore e la violenza”.

Il verso “Io ti amo e non ti penso mai” è la cosa insieme più assurda e struggente che si possa concepire e, dal mio punto di vista, ha sempre rappresentato uno degli esempi più importanti della grandezza di Bianconi come autore.

In mezzo, una serie di melodie una più bella dell’altra, che si dipanano in 47 minuti totalmente privi di riempitivi o anche solo di brani meno riusciti di altri. In questo senso, “Amen” rappresenta il compimento della parabola artistica dei toscani. Dopo aver realizzato due dischi zeppi di idee geniali ma anche di promesse non del tutto mantenute, un terzo capitolo bello ma per molti aspetti ancora transitorio, al quarto tentativo mettono a tacere ogni dubbio e firmano qualcosa di totalmente inattaccabile.

Ci sono e ci saranno sempre i fan della prima ora e io stesso adoro le loro prime cose, così naïf e artigianali. Ma se dovessimo consegnare i Baustelle alla prospettiva storica, secondo quel giochino che mi piace tanto fare, allora bisognerebbe farlo con questo lavoro.

Tutto quello che è venuto dopo, lo dice uno che li adora, è infatti quasi del tutto superfluo. Pretenziosi e a tratti soporiferi “I mistici dell’Occidente” e “Fantasma” (dopo quello smisi davvero di seguirli per un po’), ottimo il primo volume de “L’amore e la violenza” ma già figlio di un guardarsi indietro, di un ripercorrere con nuova consapevolezza una strada già conosciuta.

Sono passati dieci anni e dieci anni non sono tanti però possiamo già dirlo senza timore di smentite: “Amen” è uno dei dischi italiani più importanti del nuovo millennio, per come ha saputo coniugare passato e presente, unire tradizione e modernità in un connubio che i detrattori hanno definito “citazionista” ma che in realtà è semplicemente frutto della voracità intellettuale e della voglia di osare dei suoi autori.

Allora a questo punto la domanda è d’obbligo: ora che quella stagione è terminata, ora che il rock italiano ha abbracciato il Pop, ha sposato il linguaggio dei Social e pare aver quasi del tutto rinunciato ad interrogarsi problematicamente sul reale, ora che vanno di moda le melodie allegre e la tristezza è divenuta un qualcosa da scacciare via per sempre, si può davvero dire che quella fase fosse migliore? Si può ammettere, seppur a denti stretti, che i ventenni di oggi ascoltino roba peggiore dei ventenni di ieri?

È una gran bella domanda e mi rendo conto di non avere la risposta. Sicuramente uno come Bianconi oggi è pressoché sconosciuto ai giovanissimi e gente come Dente, Alessandro Raina, persino Vasco Brondi, al netto di una fan base comunque solidissima, potrebbero essere finiti lontano dalle luci della ribalta. Non solo: gli aggettivi “intellettualoidi”, “concettuali”, “artistoidi”, “bohemien”, “depressi” che i Baustelle e molti dei loro colleghi della stessa età si portano dietro, dice che una certa distanza la si avverte.

Mettiamola così: probabilmente Thegiornalisti, Calcutta, Gazzelle e affini, sono oggi in grado di esprimere perfettamente il proprio tempo e di catturare le giovani generazioni come Bianconi e compagni facevano quando hanno iniziato.

Che i tempi siano cambiati è sotto gli occhi di tutti. Che siano cambiati in peggio, musicalmente parlando ma non solo, è una questione che al momento lascerei volentieri in sospeso.