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REVIEWSLE RECENSIONI
26/08/2017
Ray Davies
Americana
Un disco che parla di America, che snocciola quei suoni tipici (blues, country, folk) con il gusto però di un “english man in New York”

Quella fra Ray Davies e gli Stati Uniti è una luna di miele che dura da più di cinquant’anni, a partire cioè da quel fenomeno musicale e commerciale che prese il nome di British Invasion e di cui i suoi Kinks furono indiscussi protagonisti. Non bisogna però tornare così tanto indietro nel tempo per rendersi conto di un feeling che lo scorrere degli anni non ha minimamente intaccato, anzi. Un disco di americana Davies lo aveva già suonato: era il 2007 e la mente pensante dei Kinks andò a Nashville a registrare Working Man’s Cafè, il suo album più politicizzato (One More Time, No One Listen) e rock. Nel 2010, a rinvigorire il legame con una terra amata profondamente, esce See My Friends, una rilettura celebrativa delle canzoni dei Kinks che vide come protagonisti a fianco di Davies stars di prima grandezza del firmamento a stelle e strisce: Jackson Browne, Bruce Springsteen, Lucinda Williams, Jon Bon Jovi, Spoon e financo i Metallica. Questo nuovo Americana non è dunque una novità assoluta, e nasce dalla volontà di rendere omaggio alla proprie radici artistiche, a quella musica, cioè, che il cantante e chitarrista londinese ascoltava quando era ragazzino e che è entrata poi a far parte del bagaglio d’ispirazione con cui partì l’avventura dei Kinks. Un disco che parla di America, che snocciola quei suoni tipici (blues, country, folk) con il gusto però di un “english man in New York”. Insomma, non pensiate di trovarvi di fronte a un disco di Americana nella sua accezione classica: c’è semmai più il Davies “storyteller” e la sua elegante scrittura (la politicizzata The Deal, ad esempio, è una delle canzoni più kinksiane scritte dal cantante negli ultimi anni) che rimandi ai padri fondatori del genere come Waylong Jennings, Bob Dylan, Willie Nelson o Guy Clark. A fianco del nostro si schierano i Jayhawks e non invece un gruppo di sessionisti: così l’amalgama funziona e il suono è coeso, anche se la band capitana da Gary Louris mantiene una posizione defilata, limitandosi ad ammiccare al roots più che a suonarlo davvero. Il risultato finale è un disco piacevole o poco più: a parte la title track e Rock And Roll Cowboys (la più americana del lotto e omaggio al genio di Alex Chilton) non ci sono canzoni memorabili e qui e là emerge la sensazione del compitino portato a casa con mestiere. Prescindibile.