La bella copertina di questo America’s Child farebbe pensare a un disco infarcito di patriottismo e retorica a buon mercato. Ma se è vero che la Copeland non perde occasione per rimarcare il proprio amore verso la terra natia, le liriche di questo nuovo lavoro, vanno in direzione decisamente contraria.
"Il mondo ti fa pensare che tutto stia andando a rotoli? ... Quando tutto il mondo sembra finto, dammi qualcosa di reale", si domanda Shemekia, in quella che, probabilmente, è la sua opera più marcatamente segnata dalla riflessione politica.
Nel suo ottavo album, la pasionaria cantante originaria di Harlem e figlia del famoso bluesman Johnny Copeland, mostra infatti tutta la grinta di cui è capace e non le manda certo a dire: le sue posizioni nei confronti della nuova amministrazione Trump sono dure, ferme, inequivocabili.
La Copeland non ha mai avuto paura di raccontare il proprio credo politico nelle sue canzoni che, anche in questo caso, pur essendo scritte prevalentemente da altri, restano chiaramente rappresentative delle sue opinioni.
Se dunque il titolo e la copertina dell’album, che inquadra una bambina avvolta nella bandiera americana, sottolineano il grande amore di Shemekia verso il proprio paese, in brani come Americans (un funk sottotraccia in odore di New Orleans, co-firmato da Mary Gauthier), la cantante esprime orgogliosamente il proprio disappunto verso certe politiche trumpiane, che trovano consenso nell’America più greve e reazionaria.
Will Kimbrough rileva alla produzione di Oliver Wood, che aveva lavorato a precedenti dischi della Copeland, e attornia la cantante di ospiti di gran lustro come John Prine (che duetta con Shemekia nel blues Great Rain, brano scritto a quattro mani), Emmylou Harris, il maestro della lap steel Al Perkins, J.D. Wilkes, Steve Cropper e altri.
Dall’iniziale blues rovente di Is Not Got Time For Hate alla cover un po’sorprendente, e arrangiata con grande originalità, di I'm Not Like Everybody Else dei Kinks, in cui la cantante trasforma il classico sound degli anni '60 in un lento e torrido gospel, Copeland sfodera grinta e personalità, sia nella sua voce calda, roca e piena di soul, che nei testi, ricchi di spunti politici e filosofici.
Nel disco però, c’è spazio anche per i sentimenti, come testimonia la dichiarazione d’amore di One I Love, esuberante rock blues sudista e cover di un brano di Kevin Gordon, e nella reinterpretazione della paterna Promised Myself, morbidissima ballata soul blues, in cui la cantante promette a se stessa di trovare il vero amore nonostante i molteplici tentativi falliti.
Rhiannon Giddens e il suo banjo conducono le danze nel folk di Smoked Ham And Peaches, altra canzone dagli intenti politici, che prende spunto da un pasto semplice e popolare per attaccare una società artificiosa e una politica fasulla e pronta a barare su tutto (quante carte possono tenere le maniche?), mentre le atmosfere notturne di Such A Pretty Flames, indagano con emotività (interpretazione vocale da brividi) sulle conseguenze di un tradimento (niente brucia più caldo dei tuoi rimpianti).
Se è vero che la Copeland ha contribuito solo marginalmente al songwriting delle canzoni originali che compaiono in scaletta, ha però il merito di aver scelto meticolosamente il materiale, in gran parte co-composto dal manager di lunga data, John Hahn, cucendosi addosso un abito musicale che riflette perfettamente il suo modo di sentire e le sue opinioni, sia politiche che personali, e irrorando queste melodie di passione, rabbia e sentimento.
Ballate morbide e momenti più grintosi si alternano in un disco in cui protagoniste, oltre alla voluttuosa voce Shemekia, sono le chitarre, presenza costante che spinge questo blues oltre i confini del genere, universalizzando il linguaggio talora con accenti rock, in altri casi più vicini all’Americana.
Un ritorno in gran spolvero, e un disco destinato scalare le charts di Billboard e a candidarsi nuovamente come miglior album dell’anno ai Blues Music Award, che la Copeland già vinse due anni fa.