Premiamo play e siamo di fronte ad un dipinto, un tappeto carico di sapori riflessivi e dissonanti, dolci ma tesi. Archi disciolti in un reverbero tagliente. Una sorta di benvenuto incapace di sorriderti totalmente, c'è o ci sarà qualcosa di irrisolto e lo mette nero su bianco con questo frammento.
Poi parte il pezzo vero e proprio e quello che avrebbe dovuto essere un country piuttosto tipico e rasserenante prende una direzione leggermente diversa. Natalie ha molto da dire, ma utilizzerà un codice tutto suo. Forse non vuole essere esplicita, o forse non vuole regalare delle parole dirette, profonde e laceranti; ha rispetto per sé e vuole che venga fatto uno sforzo dal suo interlocutore per cogliere il suo sentimento. Una sorta di selezione atta a circondarsi di orecchie sensibili.
Il pezzo è bello, ben scritto e fieramente portato dal piano che, con quel suo ritmo particolare di semiminime che non appena possono poggiano un fianco su una croma, fa scorrere il sangue di questo pezzo e lo fa circolare in tutto il corpo, grazie soprattutto all'armonia.
"Living in the wake of overwhelming changes
We've all become strangers
Even to ourselves
We just can't help"
Gli accordi strizzano l'occhio ad una salita che pare familiare, penso a “Midnight Cowboys”, mettendo a fuoco più quella malinconia accettata e mossa il giusto tanto da risultare vitale di “Everybody's talking” di Harry Nilson piuttosto che a quella opera d'arte inequivocabile di John Barry.
C'è in realtà qualcosa di più in “It's Not Just Me, It's Everybody”, e mentre lo penso noto che la canzone proprio non mi vuole abbandonare, ripartono gli archi dell'inizio e accompagnano alla conclusione del brano con un rallentato dal sapore live che ci risistema la giacca sull'orlo di una piega.
“Children of the Empire” si presenta come seconda traccia dove è sempre il piano a farla da padrone, rinvigorito prontamente da una sonora sezione ritmica che vivacizza e impedisce il rischioso assopimento. Da un lato l'arrangiamento è sempre accurato sia nel mix sia nella collocazione degli ingredienti e delle idee, anzi, è proprio una risoluzione sonora, nella fattispecie un momento ispirato di archi, a mettere la pennellata definitiva sul pezzo, ancora intorno ai sei minuti, come per la magnifica opening track. Dall’altro però forse è la scrittura che non regge il passo rispetto alla bella opening track, e la pomposità dell'arrangiamento non ha aiutato la canzone, producendo un effetto di distanziamento, recuperato all'ultimo momento dalla succitata coda.
"When I see the light
Shining across the freeway late at night
Start to drift over the line
And it hits me for the first time"
Tocca alla successiva “Grapevine” cambiare le sorti del mio ascolto e spostarmi di nuovo dalla parte giusta. Nell'arrangiamento e nella penna stavolta c'è tanta bontà che di pari passo al suono, limpido e profondo, tempestoso quanto serve per rievocare l'incertezza emotiva di inizio disco, mi mette nell'umore adatto ad affrontare la successiva perla dell'album, e vi assicuro che dopo l'opening track non era facile che succedesse così presto.
“God Turn Me Into a Flower” è la rappresentazione artistica di una luce celestiale ed un dolce tappeto terreno che si incontrano a metà strada, è il ricordo sopito di una musica da chiesa che forse ho sentito qualche decennio fa e che ho sempre immaginato avrebbe dovuto colorare la sacralità di un momento intimo e religioso proprio in questa maniera, per quando forse ci credevo.
È l'unione di un pad di Brian Eno con un sottilissimo richiamo di Sinead O'Connor, a loro volta sostenuti da dei giochi elettronici fatti di materiale sempre meno meccanico e improvvisamente più naturale, è una foresta vista lentamente più da dentro fino a ritrovarcisi abbracciati, fino a respirarla.
"You see the reflection and you want it more than the truth_
You yearn to be that dream you could never get to_
'Cause the person on the other side has always just been you"
"You can't control hearts aglow
I'm staring at that black water down below
Knowing I could fall if I let go"
“God Turn Me Into a Flower” è il capolavoro indimenticabile dell'album, tanto che i suoi sei minuti e mezza sembrano non esserci, tanto che la successiva e bella “Hearts Aglow” sembra quasi non all’altezza. Una canzone d'amore cui è spettato il gesto signorile di sacrificarsi e porgere la mano per aiutare la precedente a scendere senza sporcarsi il vestito. Un sacrificio intelligentemente gestito nella tracklist, vista l'indiscutibile solarità di cui “Hearts Aglow” è permeata, caratteristica che le permette di lasciarti perennemente col sorriso anche se stai ancora ripensando alla foresta di vapore e di animali della canzone precedente.
“Twin Flame”, complice la drum machine, alleggerisce il tiro ma non per questo il livello di scrittura. Anzi arriva al momento giusto, mi stava mancando un respiro di leggerezza, suoni piccoli a sostenere la ritmica, altri suoni chitarristici presi con accuratezza dagli anni ottanta, da una dx7 o da qualche altro noto feticcio arrivato con gloria fino ai giorni nostri. Poi la canzone scorre e realizzo come invece si tratti di una chitarra vera, flitrata magari in quell'epoca. “Twin Flame” è bella. Non c'è niente da dire.
“In Holy Flux” mi stende. Uno strumentale corale, rumoristico che unisce il Kubrick di 2001: Odissea nello spazio con le voci lugubri di Eyes Wide Shut. Eccole le tenebre, eccoli i movimenti più nascosti. Ogni tanto spuntano. Come un promemoria della propria schiettezza, dell'impossibilità di farne a meno. "Per avere un tipo di aspetto, ho imparato a convivere anche con quest'altro" sembra dirci.
Ma il peggio passa, è compiuto e Weyes Blood ce lo scrive nella fresca “The Worst is Done”, che sembra presa da una fusione perfetta tra Joni Mitchell, Dusty Springfield, Bob Dylan e Patty Smith. Un connubio meraviglioso che volteggia senza pesare minimamente ma accompagnandoci con serenità verso la fine. Ed è strano perché è naturalmente lei, Weyes Blood a parlare, ma non sembra essere lei a salutarci; un po' come se altri invitati ci accompagnassero fuori e lasciassero la padrona di casa nel salone. È “A Given Thing”, la sua forma di saluto e di congedo: pochi elementi oltre alla voce al piano, o meglio, tanti ma calibrati talmente bene da sospenderci in questo saluto. Cori, moog, synth, ma tutto al servizio di un abbraccio intimo, messo alla fine di un messaggio implicito e puro quanto crudo: tornare in una forma di solitudine è assolutamente sopportabile se in cambio riceve il nostro ascolto, la nostra sensibilità.