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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
10/06/2019
In Memory Of Andre Matos
Angels Cry
Ogni tanto, negli anni passati, facevo un rapido giro sulla sua pagina Instagram per capire se stesse combinando qualcosa. Qualcosa di importante, intendo. Perché purtroppo, dopo il suo secondo disco solista, “Mentalize”, lo avevo completamente perso di vista. Più per il mio progressivo disinteresse verso il mondo del metal che per suoi effettivi demeriti perché nel 2012 uscì effettivamente un altro disco, “The Turn of the Lights” che però, non mi vergogno a dirlo, non ho mai minimamente ascoltato.

Viveva in Brasile, Andre Matos, a San Paolo, città dove è nato e di cui era tifosissimo di una delle squadre locali di calcio, il Corinthians.

Non so cosa abbia fatto negli ultimi anni ma immagino nulla di veramente degno di nota, se si eccettua un tour di temporanea reunion con i Viper, la sua primissima band, nel 2015. Apprendo poi che solo cinque giorni prima di morire aveva aperto con gli Shaman (con cui, da quel che sapevo, non suonava più da 15 anni) il concerto di Avantasia, il progetto di Tobias Sammet a cui aveva anche preso parte, sia in studio che dal vivo. Avevano pure duettato insieme, lui e il singer degli Edguy e il video di quella performance, puntualmente disponibile su YouTube, testimonia anche quella che sarà per sempre la sua ultima apparizione pubblica.

È accaduto così, rapidamente, dicono per arresto cardiaco, forse nei prossimi giorni trapeleranno dei particolari in più, ammesso che sia importante. Aveva 47 anni. Un’età assurda per morire, soprattutto in un’epoca storica in cui le morti giovani da eccessi del rock and roll sembrano ormai più o meno definitivamente superate. Eppure, quanti grandi artisti che abbiamo già dovuto salutare, negli ultimi anni: solo nel mondo del metal, tra quelli a cui ero più legato, ricordo Nick Menza, Andrew “Mac” McDermott, Warrel Dane, prima ancora Mike Baker e Steve Lee. E che dire di Shawn Smith, che ci ha lasciati solo due mesi fa. O di Chris Cornell. O di Chester Bennington. Che lista lunga, ragazzi. La morte di una celebrità sarà pure meno dura di quella di un parente o di un amico ma quando arriva fa sempre male, un po’ perché le celebrità sono uomini e la morte è la cosa più drammatica e inspiegabile della vita, un po’ perché il legame con queste persone, ascoltando i loro dischi, vedendoli dal vivo, magari anche conoscendole fugacemente, lo hai comunque in qualche modo costruito.

Gli Angra sono durati poco, nella loro fase più creativa ma sono stati uno dei gruppi più importanti della mia adolescenza musicale. Appartengono a quel novero di band che ho visto nascere, che non esistevano ancora nel momento in cui ho iniziato ad accostarmi ad un certo tipo di musica. Ne posseggo persino il primissimo demotape, su cassetta, anche se lo acquistai probabilmente in un’edizione ristampata, successiva all’uscita del disco d’esordio.

Di “Angels Cry” lessi una recensione su Metal Hammer, che era all’epoca la mia rivista di riferimento. Lo andai ad acquistare al volo perché lessi di riferimenti all’epoca d’oro del Power Metal europeo, soprattutto agli Helloween, gruppo che avevo scoperto da poco ma per cui già impazzivo, e agli Iron Maiden, che erano la mia band preferita da quasi due anni.

In realtà era molto più difficile di così: c’era molta più musica classica di quanto mi aspettassi (l’intro citava esplicitamente l’Incompiuta di Schubert, anche se all’epoca era un nome che avevo a malapena sentito nominare), solo un paio di brani erano davvero lineari e “vecchia scuola” e al contrario c’era una ricercatezza ed una finezza melodica a cui le mie orecchie poco esperte non erano per nulla abituate. Per dire, la cover di “Wuthering Heights”, che rivelò al mondo le pazzesche doti vocali di Matos e che, probabilmente, oggi è uno dei momenti più iconici di un certo Power sinfonico, non mi piacque per nulla. La canzone mi appariva sdolcinata, il suo timbro troppo acuto, troppo esagerato. Oggi, che posseggo tutta la discografia di Kate Bush quelle obiezioni mi appaiono ridicole ma si cresce, nella vita come negli ascolti.

Ad ogni modo passai un paio di settimane piuttosto angosciose, durante le quali pensai più volte di liberarmi di quel cd. A quei tempi la soluzione più comoda era sbolognarlo a qualche amico oppure venderlo al Libraccio, anche se con quest’ultima soluzione ci avrei guadagnato ben poco. Ma erano tempi magri, se volevi un disco te lo dovevi comprare, i soldi erano pochi e sbagliare un acquisto poteva avere conseguenze non proprio semplici da gestire. Alla fine gli diedi un’altra chance. Ecco, quello era un vantaggio dell’era pre-internet. Eri costretto ad insistere. C’era in giro meno roba, non eravamo bulimici, potevamo sforzarci di comprendere cose che sul momento ci avevano comunicato poco.

“Angels Cry” divenne rapidamente il mio disco preferito. Quando vennero per la prima volta in Italia purtroppo non potei andare: non avevo la patente e nessuno era disponibile a portarmi. Era il 1995, non ricordo quale mese. Avevo già visto qualche concerto sporadico, tra cui gli Helloween l’anno prima ma dipendevo ancora troppo da terze persone e i miei genitori, che pure erano molto disponibili ed incoraggianti, non mi lasciavano andare la sera a Milano troppo spesso.

Poi uscì “Holy Land”. Che, se non vado errato, in ambito metal fu uno dei lavori più attesi di quel periodo. Era il 1996, marzo se non sbaglio. Tenete presente che la rinascita di un certo filone più melodico e classicheggiante sarebbe avvenuta solo nel biennio 1997-98: a quell’epoca c’erano ancora gli ultimi strascichi del Grunge, la scena estrema, il Black ed il famigerato crossover. Era ancora il periodo in cui tutte le band che volevano fare soldi tentavano di suonare come i Pantera. Gli Angra, da questo punto di vista, erano fuori dal coro ma erano talmente bravi che sfondarono immediatamente e in modo clamoroso. “Holy Land” lo comprai a scatola chiusa da Riff Raff a Gallarate, che era un po’ il tempio di noi metallari del varesotto, il giorno stesso che uscì. Avevo ascoltato solo il primo singolo, “Nothing To Say”, per radio la settimana prima, non avevo mai neppure visto la copertina. Lo comprai, lo ascoltai, lo consumai. Era un capolavoro inarrivabile, ci misi mezzo secondo per capirlo. Si erano spinti oltre, adesso le sonorità metal, oltre che con la musica classica, erano contaminate con la tradizione popolare brasiliana, c’erano migliaia di stratificazioni, percussioni, strumenti diversi, arrangiamenti di una complessità incredibile e, soprattutto, canzoni inarrivabili. La voce di Matos era pazzesca, copriva un’enorme gamma di registri, era espressiva, era magnifica. Tutti gli altri componenti erano dei mostri di tecnica ma quella tecnica era al servizio della creazione artistica, non era una mera esibizione di bravura.

Lo ascoltavo, lo imparavo a memoria, nota per nota, e non mi sembrava possibile che potesse esistere qualcosa di così bello, di così perfetto. A memoria, nessun disco uscito in quegli anni catalizzò la mia attenzione a quel modo. E teniamo presente che avevo già nella collezione “Imaginations from the Other Side” dei Blind Guardian, “Black in Mind” dei Rage, “Awake” dei Dream Theater, “Tales from the Thousand Lakes” degli Amorphis e “Icon” dei Paradise Lost: non esattamente dei brutti album, insomma.

Ma quello era diverso. Ricordo che con la mia band (una roba poco seria, tra compagni di scuola, ma un po’ ci si credeva) passammo mesi a tentare di capire come scrivere una canzone anche solo lontanamente simile ad una delle dieci che componevano “Holy Land”. Al di là della bellezza delle idee, non riuscivamo a capire come si potesse mettere tutta quella roba a livello di arrangiamenti, era la maestosità dell’architettura a colpirci. Probabilmente fu anche a causa di quel disco che capii in anticipo che non avrei mai fatto strada nel mondo della musica. Sarei andato avanti ancora diversi anni ma il mio fallimento era lì, nella oggettiva divisione tra ciò che è talento e ciò che è solo puro mestiere.

Finalmente li vidi dal vivo. Era la fine dell’anno, forse novembre, al Palaquatica di Milano, un terrificante tendone proprio all’esterno dell’omonimo parco di divertimenti, che per un certo periodo (per fortuna breve) fu teatro di molti dei più importanti concerti nel capoluogo lombardo.

Mi ero messo a scrivere per una fanzine, una roba terribilmente sciatta che durò lo spazio di un numero ma avevo già alcuni bei contatti per cui fui invitato alla conferenza stampa della band al completo. C’erano tutti tranne lui, che era quello che più di tutti avrei voluto conoscere. Non si fece vivo per tutta la giornata, ne fecero a meno anche per il soundcheck e ricordo che per tutto il tempo io e i miei amici formulammo ipotesi su dove potesse essere finito. Fu comunque un momento divertente, feci foto e scambiai quattro parole con tutti, nonostante il livello quasi inesistente del mio inglese. Quell’intervista non uscì mai ma dovrei averne ancora una versione sbobinata scritta a mano, in qualche cassetto.

Il concerto invece fu incredibile. Aprirono i Time Machine, che all’epoca erano parecchio forti anche se i troppi cambi di formazione non li hanno di fatto mai permesso una carriera decente e i Vanden Plas, di cui era appena uscito il primo disco, davvero bravissimi. Gli Angra furono pazzeschi, fecero impazzire il pubblico che cantò tutto dalla prima all’ultima nota, ricordo ancora che Matos era un mattatore eccezionale, una voce unica anche dal vivo, un controllo perfetto, nessuna sbavatura. Ero in prima fila, schiacciato ma felice e quando a fine concerto, dopo i bis, scese dal palco e si avvicinò a noi, lo abbracciai con foga e gratitudine.

Li rividi a giugno dell’anno successivo, alla mitica prima edizione del Gods Of Metal, il famigerato festival che divenne per parecchi anni il punto di riferimento dei metallari italiani. Gli Angra erano uno dei gruppi principali, subito prima dei Manowar. Ricordo un’altra prestazione eccellente, che mi godei appieno anche se quel giorno ero in trepidante attesa degli headliner, che non avevo ancora avuto modo di vedere.

“Fireworks” arrivò nel 1998, un anno incredibile per la musica che amavo. Era un disco musicalmente ineccepibile, scritto e suonato benissimo ma molto più canonico nella formulazione. Fosse venuto dopo “Angels Cry” sarebbe stato un capolavoro ma c’era già “Holy Land” come termine di paragone, era un anno in cui era uscito di tutto e quindi, nonostante ricordi recensioni entusiaste, nessuno si strappò i capelli e le quotazioni del gruppo vennero parecchio ridimensionate.

In quel tour li vidi due volte, sia da headliner che durante l’estate, al solito Gods of Metal. Furono due bellissimi concerti, soprattutto il primo, con due o tre ripescaggi dal primo disco che non avevano suonato nel giro precedente.

Poi Matos uscì dagli Angra, portandosi dietro il bassista Luis Mariutti ed il batterista Ricardo Confessori, con i quali formò gli Shaman. Finì tutto così, rapidamente, lasciandosi dietro tante promesse incompiute, anche se forse, se avessero continuato insieme, non avrebbero lo stesso prodotto nulla di eclatante.

Gli Angra (che sono al momento ancora attivi) li ho seguiti per i successivi tre dischi, i primi due dei quali davvero buoni anche se fuori classifica rispetto ai precedenti. Gli Shaman, dal canto loro, furono il classico esempio di un tentativo di imitazione pedissequo di una formula di successo, perché il loro disco d’esordio univa Power Metal a tribalismo in modo piacevole ma scontato. Meglio il successivo “Reason”, più oscuro e vagamente “moderno” come impostazione ma in generale furono un gruppo inutile, che non aggiungeva assolutamente nulla alla scena dell’epoca. Poi Matos andò via anche da lì e se ne persero le tracce per qualche anno, eccezion fatta per l’aiuto che diede al primo capitolo di Avantasia nel farlo divenire uno dei dischi Metal più riusciti dei primi Duemila.

“Time to be Free”, il suo esordio da solista, pubblicato nel 2008, fu un grande ritorno, classico, epico e magniloquente, perfettamente riuscito nel songwriting, niente di innovativo ma enormemente ispirato.

Non lo sapevo ancora ma erano i miei ultimi momenti con un certo tipo di musica. All’epoca scrivevo per un importante sito per cui non ebbi nessun problema a farmi invitare alla presentazione del disco, a Milano. Lo conobbi lì, finalmente. Un saluto veloce e due parole cordiali (niente foto e ancora oggi mi sforzo invano di ricordare perché), una conferenza stampa con noi giornalisti seduti per terra e lui su un piccolo palchetto, simpatico e disponibilissimo come mi avevano sempre raccontato. Gli feci due domande, credo, ma non ricordo più quali fossero. Quell’intervista comunque è ancora online, sono appena andato a controllare, sarebbe bello ricordarlo con articoli di questo tipo, piuttosto che con freddi necrologi copia e incolla.

Prima (o dopo? La mia memoria vacilla) vi fu uno showcase acustico, dove ci suonò una manciata di brani del nuovo disco e un paio di pezzi degli Angra. Ce lo avevo lì a pochi metri, fu una cosa quasi improvvisata ma bellissima per spontaneità ed intensità. Tanto che, se dovessi scegliere il più bel ricordo che ho di lui, sceglierei questo: la versione da brividi di “How Long (Unleashed Away)” che ci suonò quel giorno. La filmai con la mia macchina digitale (erano ancora giorni in cui si potevano riprendere le cose senza risultare dei malati di mente) e me la riguardai più volte, nei giorni successivi.

Qualche mese dopo lo vidi aprire il concerto degli Edguy all’Alcatraz, periodo “Tinnitus Sanctus”. Fu il mio ultimo concerto degli Edguy e fu pure l’ultima volta che vidi dal vivo Andre Matos.

Sono passati dieci anni. Da allora mi è capitato di pensarci. Non troppo spesso, perché i miei interessi, le mie passioni, ormai erano orientati altrove. Però ogni tanto me lo chiedevo: “Cosa starà combinando Andre Matos?”, piuttosto che: “Ci sarà mai una reunion degli Angra in formazione originale?”.

Ecco, è la parte più difficile da accettare, la morte. Non ci sarà più un seguito. Non in questa vita, per lo meno.

Verrebbe da dire, concludendo in maniera che più triviale non si potrebbe, che esisterà per sempre attraverso la musica meravigliosa che ci ha lasciato e che i ricordi che abbiamo di lui non svaniranno mai. È senza dubbio vero. Ma lasciatemi dire che non basta. Fai buon viaggio, Andre. È successo troppo presto ma non sta a noi decidere.


TAGS: andrematos | angra | RIP | Shaman | Viper