Dietro al bizzarro nome di Hands Like Houses ci sono cinque ragazzi australiani di Canberra, in attività dal 2008. Dopo tre album in studio, pubblicati dal 2012 al 2016 per Rise Records, danno alle stampe per Hopeless Recors il loro quarto lavoro: Anon. Un disco che porta già nel titolo tutta la giocosità del suo significato, oscillando tra il concetto di anonimato, immediatezza e brevità.
Di per se stesso Anon non è certo un album esplosivo o particolarmente memorabile. In alcuni frangenti e in alcune tracce risulta infatti un po’ anonimo, di quella mediocrità tipica della canzone che ascolti alla radio in auto, ti sembra carina, ma dieci minuti dopo ti dimentichi di lei. Alcune tracce come “No Man’s Land”, ad esempio, sono semplicemente sprecate: iniziano benissimo, ma poi si perdono e diventano semplicemente delle canzoni un po’ banali, dal ritornello arioso, che possono essere apprezzate superficialmente un po’ da chiunque.
Altre come “Through Glass” o “Half-hearted”, invece, sono semplicemente delle ballate un po’ innocue, sarà un caso che la prima di queste viene definita dal gruppo stesso come la canzone che piace di solito alle mamme e alle fidanzate?
Dall’altra parte, però, è anche un disco immediato, orecchiabile e leggero, che sa concedersi dei suoni ironicamente sfacciati e un po’ spavaldi, come per le opener “Kingdom Come” e “Monster”. O come per “Sick”, riconosciuta dalla band stessa come la traccia che più ha avuto modo di inebriarsi dell’ambiente in cui è stato prodotto il disco: la fattoria di Trenton Woodley (cantante e tastierista), dove i cinque australiani hanno messo a punto Anon assieme al produttore Colin Brittain (noto per il suo lavoro con artisti come Papa Roach e 5 Seconds of Summer).
Meno ironici e leggeri sono invece i suoni che caratterizzano le ultime tracce, che diventano più oscuri nella suadente “Black” (che si attesta tra le migliori dell’album) e nella seguente “Tilt”, in cui riusciamo anche a sentire un po’ dello scream di Trenton, che emerge solo in alcuni (purtroppo) brevi tratti di questi due pezzi.
In sintesi, Anon è un disco breve e variegato, leggero e orecchiabile, ma con quel pizzico di freschezza tale da essere apprezzabile da qualunque paio d’orecchie, sia quelle più avvezze al genere sia quelle più generaliste, che potrebbero ritenerlo una piacevole deviazione dalle solite canzoni in rotazione sulle radio rock della nostra penisola.
33 minuti di svago per 10 tracce che possono essere un perfetto sottofondo per le più diverse occasioni. Tanto alla fine, terminato l’ascolto, qualunque diventi la vostra traccia preferita, vi sfido a non farvi rimanere in testa il contagiosissimo riff di “Bad Dream”: con il fatto che è proprio l’ultima, sarà quella che vi convincerà a schiacciare di nuovo play a farvi fare ancora un piccolo giretto su questa giostra targata Hands Like Houses.