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06/11/2017
Gianni Brera
Appunti
L’eredità letteraria del gonzo journalism è essenzialmente deleteria, e lo è anche per Gianni Brera.
di Stefano Galli steg-speakerscorner.blogspot.com

Scrivere in Italia rispetto a Gianni Brera, facilmente definibile per lo meno come il più noto giornalista sportivo nazionale, comporta almeno due rischi critico-sportivi: quello di coloro che rileveranno ogni difetto tecnico in riferimento alle cronache agonistiche eventualmente analizzate dall’improvvido autore che si cimenti a tal riguardo; l’altro di coloro che non amando la cronaca sportiva di Brera faranno di te e lui un sol fascio.

Un terzo rischio, generale: semplicemente essere bersaglio dei “brerariani”, che ne approfitteranno anche per cozzare con i critici del secondo genere.

Non mi pongo preoccupazioni di completismo e dunque crucci rispetto al rischio generale. Anzi, queste righe, indipendentemente dalla loro consistenza, potrebbero inaugurare per loro dichiarata incompletezza, anche d’analisi, una “sub series” all’interno di una “Sketches series”.

Ho scritto diversi post in tema di “fattore territoriale”, spesso combinato con il “fattore storico”: quelli su New York, Berlino e Milano sono i principali.

Pur essendo un lettore serio di e su Emilio Salgari, è chiaro che il suo limite geografico lo ha, in ultima analisi, limitato.

Il fattore storico serve anche per riordinare le idee (oltre che per tramandare senza errori) di chi espone (e racconta?).

Per dichiarare che un risotto mangiato in un ristorante di Milano non è buono[1], occorre avere dalla propria parte entrambi i fattori; chi poi ha un palato non condizionato dai critici culinari o dal blasone del locale sarà anche in grado di sorprendervi, magari ricordando due buoni tipi di risotto (rispettivamente ai frutti di mare e al nero di seppia) in un ristorante “di pesce” che non esiste più – “Ca’ d’oro”, della famiglia Andriolo, di origine veneziana – e che, secondo alcuni, era meglio di “a’ Riccione” amato da Gianni Brera, che lì fondo il suo “Club del Giovedì”[2].

Oserei dire “eccetera”. Insomma: almeno questi due fattori sono dalla mia parte; infatti, non credo scriverò mai di Petrolini (pur apprezzandolo). Di sport praticato non scriverò.

Inutile qui una mia biografia di Gianni Brera: a parte quelle rinvenibili in internet, se ne trovano (o meglio, se ne dovrebbero trovare) almeno un paio ben fatte – Brera post mortem, fra l’altro, ha sempre goduto di un’attenta tutela della sua figura e della sua opera da parte della famiglia, tanto che le prefazioni di suo figlio Paolo vengono quasi a noia in quanto pressoché onnipresenti – sotto forma di libri.

Eccettuata l’aneddotica simil-politica: nato l’8 settembre (del 1919), paracadutista e giornalista sotto l’egida fascista ma poi passa alla resistenza.

Che ricordare?

Beh, quella sicuramente è una sorta di mia caratteristica (sebbene non del tutto dominante) d’interesse o passione: anche[3] Brera è morto in un incidente automobilistico, ma da passeggero: il 19 dicembre 1992 nelle prime ore della notte, di ritorno da una cena certo non parca.

1899, 1919, 1937: sono gli anni di nascita di Ernest Hemingway, Brera e Hunter S. Thompson: è da escludere che l’ultimo dei tre abbia influenzato – per ragioni cronologiche e linguistiche – i primi due, ma come è noto Thompson è il “definitore” del gonzo journalism.

Quanto a Hemingway, più passa il tempo, più la sua figura si sbiadisce, non per i suoi eccessi e “scorrettezze”, ma per le falle nella sua capacità di essere affidabile narratore del suo mondo[4] e perché i suoi meriti letterari paiono almeno in parte funzionali a certa politica USA della sua epoca.

Ciò non toglie – se si espunge dai pregi necessari della letteratura gonzo quello di una sua attendibilità da parte dei lettori, certo un fattore apprezzato dal “gonzo reader” che è, per la stragrande maggioranza dei casi, maschio[5] - che questi tre autori, con uno stile e un vocabolario anche innovativo, abbiano ognuno nel suo tempo influenzato i propri lettori. (È evidente la limitazione territoriale di lettura di Brera rispetto agli altri due, non necessariamente per la lingua usata, anche se forse sono impossibili le traduzioni di certe sue parole; forse proprio il fatto che Brera è stato essenzialmente giornalista solo in ambito sportivo giustifica questa sua notorietà limitata, anche se credo ci sia altro).

L’eredità letteraria del gonzo journalism è essenzialmente deleteria, e lo è anche per Gianni Brera. Addirittura doppiamente, quindi in modo ancor più grave. In misura minore, almeno per quel che concerne i loro lettori in quanto anche ascoltatori, le stesse conseguenze perniciose si manifestano con i critici musicali: molti, incapaci di stili più accollati, adottano quello sbracato di Lester Bangs, ma senza lo stile e l’acume di questi.

Innanzitutto esiste un rimbecillimento dei lettori che ritengono il quotidiano sportivo nobilitato comunque: dunque non serve leggere altro, proprio in ragione di quanto prodotto dall’autore di San Zenone al Po (provincia di Pavia) che leggevano – ormai i loro genitori e anche nonni.

Di pari, e a influenzare ulteriormente i destinatari delle loro righe e colonne, sono i sé dicenti eredi di Gianni Brera, nati qualche anno dopo: non sto scrivendo di Beppe Viola (il quale erede non poteva essere perché morto prima del maestro, nel 1982) o di Gianni Mura (destinatario del legato di una delle macchine per scrivere del suo maestro); figuri autodichiaratisi che, fra l’altro, sono debordati dalla carta stampata e sono approdati in altri media: televisione innanzitutto: il loro linguaggio è quasi sempre un autocompiacimento nel cercare iperboli assolutamente da dimenticare (e dimenticate), neologismi da adolescente, eccessi insensati[6] che, siccome giornalisti (con un albo professionale), dovrebbero invece lasciare all’Italiano traballante quotidiano di categorie per definizione non use a lavorare con le parole e con la sintassi.

Certo, c’è anche la produzione letteraria del Gioannfucarlo, meno nota, rinverdita dalle cure, dell’uno dirette e dell’altro auspici, dei fratelli Del Buono: fu Pilade a instradare Oreste presso il comune nipote Alessandro Dalai[7], così anche titoli come Il corpo della ragassa e Naso bugiardo (con nuovo titolo: La ballate del pugile suonato) furono ripubblicati da Baldini e Castoldi.

La storia delle edizioni delle opere di Gianni Brera ha poi avuto uno snodarsi non semplice, anche con risvolti giudiziari.

In questo panorama, evidenzio due aspetti prettamente letterario-editoriali.

Il primo è quello dello studioso: non mancano le analisi dello stile breriano, peraltro appunto ristrette ad un pubblico da biblioteca più che da libreria (in senso lato) e nemmeno da tutte le biblioteche.

Il secondo, mi pare[8], è che anche negli anni in cui si vendevano ancora libri (diciamo gli ultimi dieci del secolo scorso) i lettori di Brera, quelli che ne hanno fatto gloria e fortuna, cioè quelli delle testate giornalistiche sportive, frequentassero poco gli scaffali e si limitassero alle edicole, appunto; dunque non erano più quelli che leggevano Brera perché Brera non c’era più.

Oggi provate a trovare i volumi contenenti gli articoli della rubrica “L’arcimatto” in libreria, appunto.

Insomma: Brera è diventato un autore con un pubblico assolutamente ristretto, forse in esaurimento proprio perché Brera era uno da quotidiano, da banco del bar, da tavolo di osteria, al più da gambe sul tavolino stravaccato sul divano con cravatta lasca.

A mo di epigrafe, ma finale: “Gianni Brera, un autore destinato a durare più del pubblico dei suoi lettori”. Peccato.

[1] In tema di risotto alla milanese, scrivetemi in privato.

[2] Si veda il volume dedicato ai relativi scritti di Brera così rubricati del 1987 e 1988 – di molto successivi al sodalizio culinario creato nel 1956, si dice al tavolo n. 14: (A. MAZZOLA e P. BRERA curatori), Il club del giovedì, Torino, Aragno, 2006.

[3] Come James Dean, Roger Nimier, Ayrton Senna. Potrei aggiungere Albert Camus e la seriamente ferita Françoise Sagan. Tutti al volante.

[4] Per tutti: si leggano certe pagine in cui Jean Cau nel suo libro del 1961 Les oreilles et la queue (in Italiano: Toro, Milano, Longanesi, 1962) in cui gli Spagnoli smontano la conoscenza dell’arte taurina, e della tauromachia in particolare, dell’autore di Oak Park.

[5] Non che le femmine siano imprecise, ma ritengo che sia come scrivo.

[6] Peggio poi l’ex sportivo che “vuol fare il Gianni Brera”: ho seguito nel 2015 una telecronaca di una partita di pallavolo della nazionale italiana maschile commentata anche dall’ex Andrea Lucchetta: squallida ed incomprensibile (mancava anche di riferimenti tecnici, graditi al profano) faceva dimenticare le sue grandi doti di sportivo.

[7] Lo racconta PdB nel suo intervento alla giornata di studi tenutasi a Milano il 17 novembre 2012 in occasione del ventesimo anniversario della morte del suo amico Gianni.

[8] Le logiche degli editori, almeno sino a qualche anno fa, erano tali per cui tendo ad escludere che: 1) i libri di Brera vadano fuori catalogo e divengano “remainder” solo in esito a una causa; 2) quelle copie per mesi stazionino in numero immutato o quasi per poi sparire (e diventare merce di piccola bibliofilia).