La Reunion degli Arab Strap è stato uno degli eventi più belli di questi ultimi anni di musica. Normalmente questo tipo di operazioni non ha mai incontrato il mio favore, ho sempre creduto che lasciare che il tempo faccia il suo corso sia sempre la decisione migliore da prendere, quando si tratta di artisti e carriera.
Oggi le cose sono cambiate: necessità sempre più forti di monetizzare, la sovraesposizione data dai social, per molti anche il fatto che, al di fuori del progetto di maggior successo, non è semplice avviarne un altro che ne replichi i risultati. Insomma, sono anni che a fermare il ricongiungimento delle band storiche è solo la morte fisica di uno o più componenti (e a volte neanche quella).
Eppure, che gli Arab Strap si siano riuniti è un’ottima notizia. Non solo per il banale motivo di aver dato la possibilità di vederli a chi se li fosse persi nei loro anni di normale attività; ma anche, e forse soprattutto, perché As Days Gets Dark, il ritorno discografico dello scorso anno, ci ha abbondantemente dimostrato che il duo scozzese ha ancora tante cose da dire e non ha perso la modalità efficace e pungente di farlo.
Rassicurati pubblico e critica su questo punto, a questo giro Aidan Moffat e Malcolm Middleton si permettono dunque un po’ di sana nostalgia, omaggiando un disco come Philophobia, che festeggia quest’anno il 25esimo anno di età.
Arrivato dopo il già sorprendente esordio The Weekend Never Starts Around Here, il secondo disco degli scozzesi è un condensato perfetto del loro minimalismo musicale, del tono dimesso e di una narrativa cruda e asettica che negli anni ha evocato molteplici paragoni con i grandi narratori americani del secondo Novecento, da Raymond Carver a John Cheever. Uscito per la Chemikal Underground dei Mogwai, con la partecipazione speciale di Stuart Murdoch e Sarah Martin dei Belle and Sebastian, il sophomore ha anche contribuito non poco a puntare i riflettori su una scena, quella di Glasgow, che ha giocato un ruolo non da poco nell’ambito della musica indipendente.
E dunque questa sera ce lo rifaranno tutto, quella di Ferrara unica data italiana di un tour che per fortuna anche stavolta ha deciso di prenderci in considerazione (c’è da dire che non ci hanno mai snobbato, qui hanno un seguito abbastanza numeroso e molto fedele, come ha dimostrato anche il concerto della scorsa estate al TOdays Festival).
Il cortile del Castello Estense, edificio simbolo della città emiliana, è forse la miglior location possibile, piccola e raccolta, oltre che suggestiva, per ospitare un ultimo giro di concerti del Ferrara sotto le stelle, dopo gli eventi più grossi di quest’estate. Il pubblico ha risposto bene anche se, quando gli spazi sono questi e quando chi suona ha questa storia alle spalle, sarebbe sempre auspicabile avere un sold out obbligato.
Un ulteriore dato di interesse è rappresentato dalla presenza di Daniela Pes: la musicista sarda ha esordito quest’anno con Spira, uscito per la Tanca Records di Iosonouncane, prodotto da lui stesso, e senza dubbio uno dei migliori dischi italiani dell’anno ancora in corso (ne avevo parlato in sede di recensione). Lo ha suonato in giro tantissimo ma io, tra una cosa e l’altra, non ero ancora riuscito ad esserci, quella di stasera è l’occasione migliore per colmare la lacuna.
Da sola dietro la consolle, lavorando con l’elettronica ed un piccolo Synth, evoca paesaggi sonori scuri, un Folk dilatato che si fonde col Post Rock, unitamente ad una vocalità potente e ad alto tasso emozionale, che rispetto al disco esce fuori molto di più. Suggestioni fonetiche che includono italiano e sardo ma che spesso puntano solo sull’aspetto evocativo della parola, le canzoni diventano parte di un unico disegno, assumono forme in parte inedite, come se si trattasse di un’unica lunga suite.
Bravissima ed evocativa, soprattutto perché non aveva molti mezzi a sua disposizione. La aspettiamo presto in un set tutto suo.
Gli Arab Strap avevano già annunciato che Philophobia sarebbe stato eseguito in versione “naked” e non c’è dunque da meravigliarsi nel vedere che questa sera sul palco ci sono solo loro due, senza la band allargata con cui normalmente si esibiscono. È in un certo senso un ritorno alle loro origini, quando suonavano nei pub e quando la loro musica era decisamente più scarna di quel che sarebbe divenuta in seguito.
All’inizio ero poco convinto, anche perché quelle canzoni sono sì minimali a livello di arrangiamenti, ma contengono tutta una serie di orchestrazioni e di sovraincisioni, più qualche inserto fortemente elettrico, che temevo che una performance in duo avrebbe inevitabilmente penalizzato l’insieme.
Di sicuro alcune cose sono mancate ma nel complesso l’effetto è stato più che convincente: Aidan Moffat, a dispetto del look da ex alcolista scappato di casa, possiede un carisma magnetico ed è ancora un interprete perfetto e credibile delle storie d’amore crude e a tratti improbabili che lui stesso ha scritto e raccontato (aggiungiamo che negli anni sembra essere pure migliorato come cantante, la prova di stasera è stata eccellente). Malcolm Middleton è un chitarrista eccezionale, dotato di uno stile unico e di grande fantasia, di fatto le sue parti, a metà tra il Folk ed il Post Rock di scuola Mogwai, riempiono da sole tutto gli spazi possibili. Il resto viene reso con una melodica suonata da Aidan in diverse tracce (durante “Islands” compare anche un’inusuale armonica a bocca) e con le solite parti di batteria elettronica (che comunque erano già presenti nella versione originale in studio). Sempre Aidan ha un piccolissimo drumkit fatto di un piatto e di un tamburo, e si serve di essi per enfatizzare l’aspetto percussivo. Non c’è molto altro (un po’ di rarefazione elettronica in “My Favourite Muse”) e se da un lato ci mancano le schitarrate alla fine di “New Birds”, o i suggestivi finali di “Piglets” e “The Day After the Funeral”, si può dire che lo spirito di queste tredici canzoni sia stato rievocato alla grande.
Dall’ormai leggendario attacco di “Packs of Three”, “It was the biggest cock you’d ever seen”, fino agli amanti in crisi alle prese coi propri limiti e tradimenti in “The First Time You’re Unfaithful”, ascoltiamo per un’ora storie d’amore inusuali, a tratti comiche e a tratti disperate, dove l’umanità scalcagnata ma sincera dei suoi protagonisti costituisce un qualcosa da guardare con profonda attenzione e un briciolo di commozione.
I bis sono solo tre ma forse è giusto così: non è stato facile ascoltare quello che abbiamo ascoltato e a volte è profondamente ingiusto misurare i concerti dalla lunghezza. Ad ogni modo “The Turning of Our Bones”, “Fable of the Urban Fox”, entrambe dall’ultimo disco, ed il classico “The Shy Retirer”, contribuiscono ad alzare il tiro, a far muovere un po’ di più il pubblico (“Adesso facciamo alcune canzoni allegre!” ha annunciato Aidan con un filo di esagerazione) e a valorizzare ulteriormente un set che comunque ci aveva già soddisfatto in pieno così.
Gran bel concerto, il modo migliore per salutare l’estate.