Quando esce il disco di una band storica, con decine di anni di carriera alle spalle e una serie di capolavori già abbondantemente storicizzati, non ci sono troppi discorsi da fare: nessuno si aspetta più grandi cose, si chiede semplicemente di mantenere l’asticella su un livello accettabile, nella consapevolezza che tutto ciò che verrà in più sarà un regalo.
L’ho detto e scritto spesso: dopo dieci anni o giù di lì, qualunque band smette di essere rilevante. Esistono alcune eccezioni, certo, ma bene o male l’itinerario è quello e non penso che dovremmo lamentarcene. Il tempo passa, tutto ha una fine e credo che sia sempre valido il principio per cui occorrerebbe dare più spazio e attenzione ai nuovi nomi, piuttosto che continuare a mettere le solite vecchie glorie al centro della narrazione musicale.
Per i Paradise Lost vale lo stesso identico discorso. Il gruppo dello Yorkshire ha percorso un itinerario comune a molte band di Metal più o meno “estremo” degli anni ’90: dopo alcuni capolavori che ne hanno codificato e definito il sound (parliamo evidentemente di Icon e Draconian Times, anche se i fan vi citerebbero anche Shades of God e One Second, sebbene il primo sia ancora un po’ acerbo e il secondo già pienamente indirizzato verso sonorità più accessibili e per certi versi mainstream) c’è stata una sorta di mutazione genetica che li ha portati verso lidi più vicini al Dark e al Synth Pop tipico di nomi come i Depeche Mode.
L’insuccesso (e per molti versi anche la scarsa ispirazione) di titoli come Host e Believe in Nothing hanno spinto Greg Mackintosh e compagni a ritornare sui propri passi e a non discostarsi più da un certo trademark stilistico. Dall’eponimo album del 2005 ad oggi, di fatto, i Paradise Lost non hanno più rinunciato all’impronta Gothic Doom che li ha caratterizzati sin dagli esordi; a volte interpretandola nella chiave più “leggera” che ne aveva a suo tempo innescato il successo commerciale (In Requiem, Faith Divides Us, Death Unites Us) a volte spingendo di più sull’aspetto del Death Doom (Medusa).
Nessun lavoro imprescindibile ma un livello qualitativo costantemente alto, mai calato nel corso di questi vent’anni. Si potrà accusarli di andare avanti per mestiere, ma la verità è che trovarli ancora così in forma non è un affare scontato.
Ascension arriva a cinque anni dall’ottimo Obsidian, aggiungendo due anni al naturale ciclo di tre che normalmente si prendono tra un album e l’altro. La dilazione è stata ovviamente dovuta al Covid, anche se la carenza di nuovo materiale è stata in qualche modo ingannata dalla riregistrazione di Icon (del tutto superflua e per certi versi dannosa) e dalla pubblicazione del concerto in streaming At the Mill (molto ben riuscito, nonostante la mancanza del pubblico).
Prodotto dallo stesso Mackintosh e impreziosito da una splendida copertina che ritrae un quadro del pittore britannico George Frederic Watts intitolato “The Court of Death”, Ascension è il 17esimo disco dei Paradise Lost e segna, per l’ennesima volta, un cambio di batterista, decisamente l’elemento più discontinuo all’interno di una formazione che è rimasta nel complesso più o meno stabile: Guido Montanarini, che solo un anno fa era stato “promosso” da semplice turnista a membro stabile della line up, ha suonato sull’album ma ha da poco annunciato di aver mollato il colpo. Al suo posto, la vecchia conoscenza Jeff Singer, che aveva già preso parte a In Requiem e Paradise Lost.
Nessuna novità dal punto di vista stilistico, semmai una sorta di via di mezzo tra Medusa e Obsidian, senza tuttavia gli episodi dalle forti potenzialità commerciali che erano presenti su quest’ultimo (non c’è una “Ghosts”, per capirci).
L’inizio con “Serpent on the Cross”, che dopo un’iniziale apertura cavalcata in stile Death melodico con rallentamenti e accelerazioni, mette subito le cose sul binario giusto e prepara a quel che accadrà: band in formissima, soprattutto Nick Holmes, che se dal vivo ha sempre faticato parecchio, in studio sembra migliorare col passare degli anni, alternando con estrema disinvoltura le clean vocals con un growl che ha ormai pienamente nella sua piena efficacia. Greg Mackintosh possiede sempre un gran tocco, non ha perso il dono di tirare fuori riff ispiratissimi e i suoi interventi solisti squarciano con inattese aperture melodiche l’oscurità opprimente che, come da copione, ammanta quasi tutto il disco.
Ci sono soluzioni provate innumerevoli volte (la potente “Tyrants Serenade”, la più lenta e strascicata “Salvation”, lo stesso singolo “Silence Like the Grave”, un mid tempo robusto sostenuto da un grande parte di chitarra) ma nonostante la ripetitività dei codici espressivi, il risultato finale è talmente buono da non provocare stanchezza o eccessive sensazioni di déjà vu.
Qualche episodio si eleva sopra la media: “Lay a Wreath Upon the World”, aperta da un’inusuale chitarra acustica, si mantiene su un tono da ballad per tutta la prima parte, poi si avvale del contributo di tutta la band ed è impreziosita da un controcanto femminile. È uno di quei momenti in cui fanno capire di poter essere ancora emozionanti dopo tutti questi anni.
Molto bella anche “Diluvium”, anch’essa dominata dai cambi di tempo, possiede un mood che sembra stare a metà tra One Second e Draconian Times.
“Savage Days” è più leggera nei suoni ma rinuncia a qualsiasi scorciatoia per rendersi accessibile, così come “Sirens”, nessuna concessione a soluzioni semplici, un mid tempo su cui Nick Holmes sfodera quella che è una delle migliori performance su questo disco. Intenzionalmente dalle parti di Icon, non raggiunge quelle vette ma rimane ugualmente un gran brano.
La conclusiva “The Precipice”, aperta da un pianoforte piuttosto lugubre, gioca sull’accostamento tra Growl e melodia, un altro momento altissimo in cui l’atmosfera evocata tiene su tutto il pezzo.
L’edizione speciale contiene due pezzi aggiuntivi, “This Stark Town” e “A Life Unknown”, che non aggiungono molto al menu principale, ma che sono comunque scritti benissimo, a conferma di un gruppo in stato di grazia.
Di nuovo, non siamo di fronte ad un capolavoro, ma neppure di uno stanco riciclo delle idee del passato. Ascension è il disco migliore che i Paradise Lost avrebbero potuto fare nel 2025 e sono abbastanza convinto che saremo ancora qui ad ascoltarlo nei prossimi anni.