Un uomo asciutto, bandana in testa, nero, atletico ed eclettico esce da una porta al lato del palco e ammira con una certa estasi l’austera sala Sinopoli. I molti posti sono ancora per la maggior parte liberi, e già l’uomo ha nello sguardo la meraviglia di sapere che presto saranno pieni e che potrà suonare per i loro occupanti.
“Oh, will you be taking pictures?”, mi chiede con un sorriso da bambino di mezzo secolo. “Brian”, si presenta simpaticamente stendendo la mano e, come se non fosse evidente, raccontandomi quanto sia felice di essere qui. Di cognome fa Fairbairn, suona la batteria e anche molto bene. E’ uno dei protagonisti di questo film stasera. Gli altri si chiamano/fanno chiamare Steve Chandra Savale (chitarra) e Aniruddha Dr. Das (basso). Dall’altra parte dello schermo le loro controparti francofone sono Hubert, un promettente pugile africano senza più palestra, Vinz, aggressivo e rabbioso idiota bianco di periferia, e Saïd, arabo irriverente e traffichino. Sono tutti qui a celebrare Mathieu Kassovitz e il suo exploit alla regia di 30 anni fa, raccontando una storia semplice ed apparentemente eterna.
Il film non ve lo racconto. Cerco di farvelo sentire perché è viscerale. La vita nelle banlieue parigine è a partiti contrapposti. Non si sa bene perché i perdenti di qualsiasi colore siano costretti a mosse prevedibili e distruttive, dettate dalla vendetta, dall’istinto, dalla s-ragione. Eppure, in una società perduta, è quello che li tiene vivi e spesso vegeti.
Il film è come un “Amici Miei” proletario, criminalotto e triste. Un viaggio inesorabile senza meta, scanzonato e crasso. E come tale è visto dai poliziotti, che non sanno bene perché ma devono fare la faccia dura e menare forte per scongiurare di cadere anch’essi senza uno scopo.
La periferia in bianco/nero è idealizzata, geometricamente estetica e ordinatamente grottesca. Lo sconforto stavolta non è rappresentato dall’architettura brutalista o dalla sciattezza dilagante (e qui lo sappiamo bene, siamo a un passo dalla periferia romana), ma dalla condizione umana stessa, dalla inconsapevolezza del baratro in cui si sta precipitando, fino al tonfo. Anzi, i palazzi offrono tetti, e i tetti offrono un raduno ristoratore per i nostri sub-proletari. Ma la polizia, la corazza del perbenismo, arriva anche lì e non c’è più rifugio. E allora i nostri tre improbabili compagni di strada, falsamente forti di una pistola arronzata e mossi dalla vendetta senza mira per un amico, si allungano nel cuore della civiltà. Atterrano in quella Parigi rigogliosa e refrattaria che li rigetterà come rifiuti, fino alla tragedia finale dove materia granitica e antimateria caotica collidono tragicamente ed inesorabilmente perché noi, la società intera, non abbiamo saputo fare di meglio.
Per gli Asian Dub Foundation, ovvero la crib dei primi tre protagonisti citati, La Haine (“L’Odio”) è evidentemente un faro culturale ricoperto da manifesti potenti. Infatti è dopo più di venti anni, cioè dalla loro opera somma Enemy of the Enemy, che riprendono il tema dell’odio kassovitziano e stavolta vogliono travalicare i confini tra schermo e cassa acustica, offrendoci una colonna sonora alternativa fatta del mix che ci hanno fatto amare, ricco di dub, rap, reggae, afrobeat, funk, e il rock non lo mettiamo?
Dopo tanti anni gli Asian Dub Foundation non cessano di metterci in guardia contro gli sbagli che bovinamente e miopicamente perpetriamo, cedendo all’astio e alla discriminazione come regole sociali (“make no mistake, there’s no escape ‘cause you’re feeling the hate!”).
L’impatto sonoro è travolgente, non è quasi possibile restare impalati in poltrona, ci si vuole buttare nella sommossa sullo schermo. I temi musicali restano senza parole e sono riconducibili a vari pezzi soprattutto dell’album citato, fedeli ai temi così caustici. Sperando di non sbagliare, ricordo “Fortress Europe” e “1000 Mirrors” tra i vari. È un ritmo incalzante, con un basso da fondale abissale che non perdona, batteria a volte criminalmente riottosa e a volte marziale, a passo di marcia o di carica sui manifestanti. Le basi sono esoteriche, arricchite da una chitarra fantascientifica che si fa gatto di strada, ferito e fiero che miagola sguaiatamente la sua rabbia e la sua belluina carica repressa.
Hubert, Vinz, Saïd e le loro pericolose peripezie si specchiamo attraverso lo schermo e trovano la loro immagine tradotta in suono. Il loro spirito ci arriva con prepotenza e rapisce la platea, colta, molti radical-chic ma certamente in cerca delle stesse risposte elusive che tutti i sei protagonisti cercano e non trovano.
C’è una sintonia di cuore innegabile tra il concerto e l’opera in proiezione, esteticamente accattivanti e perversamente provocatori. Ciò nonostante la somma tra le parti è meno del totale. Ho trovato la colonna sonora spesso fuori sincronia con gli umori delle scene e, essendo entrambi frenetici e diretti al volto, si distraevano troppo a vicenda, negando a noi spettatori importanti momenti di riflessione o di comunione con l’una o con le altre. Una interferenza tra orecchie ed occhi. Forse sono impietoso, la resa discutibile non nega che l’opera intera sia un gesto d’amore, un messaggio impegnato, un avvertimento accorato. Cose da spiriti gentili come Brian, che sperano ancora nel riscatto della società umana e che sanno che il nemico del nemico non è un amico.
Nel finale si spegne il proiettore, le luci spot bianche sono colpi d’arma da fuoco e finalmente i tre sul palco ci si scagliano contro, rilasciando una firma dub di rara potenza. Continuiamo a cadere, non è ancora tempo di schiantarci al suolo e, per ora, va bene a tutti così.






