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REVIEWSLE RECENSIONI
30/01/2019
James Blake
Assume Form
James Blake è il più grande di tutti. In questi strani e sofferenti tempi. Forse il ritorno di James Murphy, un paio di anni fa, ha fatto vacillare di pochissimo questa mia convinzione, ma gli LCD Soundsystem flirtano (e non poco) con il rock e quindi il discorso si complica. Il rock, si sa, complica sempre.
di Simone Nicastro

In ogni caso il mio “più grande” ovviamente non significa “esposizione” e “sequela”: Drake, Mars, Grande, West, Beyonce, Malone, Cara, Harris e via dicendo hanno una fan-base con numeri inavvicinabili per Blake e probabilmente per il 90% degli altri artisti in attività. Eppure anche questi ultimi sono in qualche modo debitori a James: non si tratta di formule musicali, approccio artistico o mood produttivo, è l’essenza del “Blake’s sound (world)” ad essere punto di riferimento e paragone per chiunque in questi anni voglia confrontarsi seriamente e concretamente con la musica contemporanea. Forse solo Kendrick Lamar e i The xx potrebbero intromettersi in questo mio ragionamento ma per altre ragioni che, se vorrete, approfondiremo in un’altra occasione.

Il giovane compositore/musicista/dj/produttore londinese è uno di quelli che ha cambiato le cose silenziosamente, quasi in punta di piedi, senza far clamore e non suscitando praticamente invidie; il pop ha assunto insieme a lui connotazioni che, pur essendo per un certo verso precedenti alla sua discesa in campo, dopo sono diventate in maniera naturale il suo marchio di fabbrica: lo spleen sensoriale ed emotivo, il vuoto molto più del pieno, i battiti (del cuore) rallentati quasi all’eccesso, le frequenze digitali che vorrebbero rivaleggiare con il pianoforte uscendone quasi sempre sconfitte, le voci che arrangiate, innalzate e scagliate tra le stelle non sono mai sembrate cosi fragili eppur così perfette. Che “tratti” hip hop, r&b, soul, easy listening, edm o cantautorato, Blake è uno quei rari artisti che non fa fuoriuscire l’anima per creare la sua musica, ma al contrario immagina e realizza una differente idea di musica per ridestare proprio l’anima degli ascoltatori. Osservare e plasmare la realtà in brevi sinfonie per scovare l’infinita bellezza della sua anima e di tutti quelli disposti ad ascoltarlo.

A che punto siamo però ora alla quarta fatica in studio? Al numero di uscita discografica che in moltissimi casi, proprio tra i più grandi, ha (ri)definito il futuro delle loro carriere? “Assume Form” è un album meraviglioso per quanto mi riguarda, l’ennesima prova del talento misterioso e sconfinato di Blake. Certo, come qualcuno sta facendo notare, è un disco più assimilabile e interpretabile per il pubblico cosiddetto mainstream, con alcuni brani che non sfigureranno in qualsiasi programmazione radio, tv e web; ma niente è andato perso dell’approccio unico e stupefacente di James alla materia strettamente compositiva/musicale e immaginifica.

L’inizio è con quella Assume Form che, per essere adeguata al fardello di essere anche il titolo dell’intero lavoro, fa riaffiorare immediatamente tutte le certezze a cui l’autore ci ha da sempre abituati (canto angelico su una elegia pianistica e sequenze ritmiche/vocali supportate da rare incursioni di archi) tra intimità e brillantezza; Miles High, primo featuring di Metro Boomin e unico di Travis Scott, è l’esca trap personalizzata dal passo felpato a cui è impossibile non abboccare, mentre Tell Them, secondo feat. di Boomin in collaborazione questa volta dell’efficacissimo Moses Sumney, è l’altra faccia della medaglia di matrice mediorientale filtrata dubstep da cui lasciarsi ammantare e circuire.

Con Into The Red torna sugli allori in solitudine Blake, regalandoci una delle sue canzoni migliori di sempre dall’andamento minimal/orchestrale e una vocalità talmente carezzevole da desiderare che non finisse mai; non contento di tale e tanta bellezza appena conclusasi ecco la strepitosa Barefoot In The Park, una ballad sintetica, confezionata al millimetro per la giovanissima e splendida cantante spagnola Rosalía, da empireo della pop-music (per chi non l’avesse ancora fatto consiglio l’ascolto dell’incredibile “El Mal Querer” di Rosalía, per il sottoscritto miglior album del 2018).

Can't Believe the Way We Flow è formalmente un soul imbrigliato in un loop liquido e magnetico mentre in Are You In Love? riecheggiano le fattezze dell’etereo e ipnotico James Blake degli esordi, tra schizzi di synth e criptica autoanalisi. Non poteva ovviamente mancare il colpo hip hop grazie al maestro André 3000 che si insinua con geometria invidiabile su Where’s The Catch?, r&b elegantemente pressato da confini deep-house. Applausi a scena aperta.

Blake in dirittura d’arrivo decide di stupirci ulteriormente con la doppietta I’ll Come Too e Power On: un Burt Bacharach sezionato e riadattato all’orecchio di un giovane/adulto del 2019 tra squisitezze melodiche, orchestrazioni contenute, campionamenti ambientali e glitch improvvisi.

Infine, anche il brano anticipatore dell’album di qualche mese addietro fa la sua comparsa: Don’t Miss It, ennesimo apice di “Assume Form”, ancora una volta ricorda a tutti perché non c’è veramente nessuno che come James Blake riesca a creare dei micro universi in cui perdersi per qualche minuto, senza aver quasi niente a cui aggrapparsi eppure sentendosi totalmente appagati e sicuri dalla misteriosa straordinarietà della musica. L’epilogo del lavoro invece è compito di Lullaby For My Insomniac, che obbliga l’ascoltatore a una perfetta solitudine e all’abbandono di mente, cuore e corpo per raggiungere finalmente una pacificazione (reale o fittizia?) sensoriale in un semplice coro da messa laica. Da brividi.

Dicevo che James è il più grande di tutti. In questi strani e sofferenti tempi. Che con lui sono forse un po’ più strani ma decisamente molto meno sofferenti. Non saprei fargli complimento appunto “più grande”.