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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
29/10/2020
The Allman Brothers Band
At Fillmore East
At Fillmore East è l’album che codifica definitivamente la nascita di un genere e di un suono, il southern rock, ed è quello che meglio spiega ad appassionati e musicisti l’esatto significato del termine jam.

Il giovane motociclista accelera, sorpassa un auto e al semaforo, che sta diventando rosso, va via dritto come un fuso. Quando guida la sua Harley modello Sportster, quel ragazzo si sente libero e selvaggio, la rockstar e il grande chitarrista che è in lui lasciano il posto a un sogno di capelli al vento, all’adrenalina che sale impetuosa dal cuore alla testa, e all’orizzonte, là in fondo, da raggiungere, correndo più veloce del tempo, correndo più veloce di tutti. Siamo a Macon, Georgia, e sono le 17.45 del 29 ottobre del 1971. La strada si arrampica per una collinetta e poi discende, in un lungo rettilineo che chiama ancora velocità. Il motociclista accelera di nuovo, anche se, in lontananza, vede un grosso camion che sta per attraversare l’incrocio. Se andasse più piano potrebbe frenare, salvarsi, opporsi alla morsa del destino che lo sta strappando alla vita. Invece, il motociclista accelera, probabilmente perché pensa che solo di slancio può superare l’ostacolo, o forse perché ritiene contro natura interrompere quella corsa nel vento. Gira la manopola dell’acceleratore con la stessa urgenza con cui, sul palco, muove le dita sul manico della Gibson. Lo spazio è poco, quasi un collo di bottiglia, lo stesso che lo ha reso uno dei più grandi chitarristi slide che la storia ricordi. E’ un attimo: le ruote della Harley perdono aderenza, la moto si ribalta e vola, insieme al conducente, per trenta metri.

Il ragazzo, che si chiama Duane Allman, morirà in ospedale, tre ore più tardi, per le gravi lesioni riportate. Il mese successivo, il 20 novembre del 1971, avrebbe compiuto venticinque anni e quel compleanno, mai festeggiato, sarebbe stato probabilmente il più felice della sua vita. Duane è ormai considerato l’enfant prodige della scena musicale statunitense, tutti lo cercano e lui collabora con tutti: da Eric Clapton a Laura Nyro, da Johnny Jenkins a Otis Rush, da Aretha Franklin a Herbie Mann. Ma è con il fratello minore Gregg e i suoi Allman Brothers Band che Duane sta entrando a falcate nella leggenda del rock. A luglio, infatti, è uscito il terzo disco del gruppo, At Fillmore East, che in tre mesi è già diventato disco d’oro. Registrato a New York, nelle serate del 12 e del 13 marzo del 1971, At Fillmore East è considerato da molta critica uno dei dischi live più riusciti e avvincenti della storia, un’opera destinata a far parlare di sé per decenni, una svolta epocale, che segna il punto di non ritorno nell’evoluzione della musica americana. Questo è infatti l’album che codifica definitivamente la nascita di un genere e di un suono, il southern rock, ed è quello che meglio spiega ad appassionati e musicisti l’esatto significato del termine jam. Che non è più solo improvvisazione, e nemmeno il susseguirsi sbrigliato di assoli finché la fatica non prenda il sopravvento: con gli Allman la jam è soprattutto uno spirito condiviso che fa da collante, una predisposizione naturale alla libertà espressiva, a spingersi oltre i confini, a cercare, in un’apparente anarchia di tempi e moduli, l’esatto punto di fusione in cui generi diversi (texas blues, jazz, hard rock, rock californiano) diventino un tutt’uno e parlino la medesima lingua. Come un viaggio a ritroso nell’alveo di un grande fiume di cui si cerca la sorgente, come la pennellata forsennata di un pittore visionario che quasi in trance riesce a rendere, in colori e forme, la forza primigenia, l’anteriorità ideale che l’ha spinto verso l’estasi dell’arte.

Le registrazioni di At Fillmore East nascono da un’idea del rock promoter Bill Graham, che organizza nel suo locale di New York, due serate con un parterre de roi da brivido: c’è Johnny Winter, l’eroe di Woodstock, che ha da poco pubblicato il suo quarto album, c’è l’Elvin Bishop Group, nome di spicco della scena blues e ci sono, appunto, gli ABB. Quando tutto è ormai pronto e la scaletta dello show è allestita, Tom Dowd, produttore degli Allman, vuole mandare tutto a monte. Arrivato solo all’ultimo momento a New York di ritorno dall’Africa, va su tutte le furie quando scopre che per i due concerti la band aveva ingaggiato, senza il suo parere, l’armonicista Thom Doucette e una sezione fiati capitanata da Rudolph Carter. Dopo una sfuriata epocale, Dowd caccia tutti e tiene il solo Doucette, che suonerà in alcuni brani (Stormy Monday, Done Somebody Wrong) senza però regalare alla performance un contributo particolarmente consistente. Head liner delle serate è ovviamente Johnny Winter, mentre lo show degli Allman, allora una band emergente, è previsto a notte fonda. Gli ABB iniziano a suonare ben dopo la mezzanotte e siccome il gruppo, quando saliva sul palco, era un fiume in piena, la loro performance del 13 marzo si protrasse addirittura fino alle sei del mattino del giorno dopo, quando la band fu raggiunta, per l’ennesimo encore, da Steve Miller al piano, Bobby Caldwell alla percussioni e Elvin Bishop alla chitarra. Nonostante fosse ormai mattino, la gente, letteralmente impazzita, non se ne voleva andare, e leggenda vuole che fu Duane Allman a mandare tutti a casa, esclamando, con buona dose d’ironia:” Per stasera è tutto, grazie!”.

Cinque ore e passa di concerto: una follia per chiunque, ma non certo per la band dei fratelli Allman. Ciò a cui il pubblico aveva appena assistito era qualcosa di unico, uno spettacolo talmente intenso ed emozionante da far perdere il senso del tempo e dello spazio. Il disco originale però prevede una scaletta di soli sette brani, mentre è solo con la ristampa del 2003 (in due cd), che si possono ascoltare altre canzoni tratte da quei due concerti, oltre a sei brani estratti da uno show che gli Allman tennero sempre al Fillmore East, il 27 giugno dello stesso anno, per celebrare la chiusura del locale. Difficile raccontare una sequenza di canzoni epocale, sulla quale si sono già spesi fiumi di inchiostro. Eppure, non si può omettere, anche in questa sede, di sprecare due parole sull’ascolto del disco. Il live si apre con Statesboro Blues di Willie Mc Tell e i quaranta secondi iniziali della slide di Duane sono fantascientifici, quaranta secondi di fantasia al potere, in cui Duane e la sua Gibson, in perfetta simbiosi, esprimono tecnica sopraffina e travolgente intensità. A seguire ancora meraviglie blues: Done Somebody Wrong, con la slide sempre scintillante di Duane, Stormy Monday di T-Bone Walker, e quindi You Don’t Love Me di Willie Cobbs (già onorata in Super Session dal trio Kooper/Bloomfield/Stills), in cui Duane e Dickey Betts si gettano in un’improvvisazione rock blues senza freni che dura quasi 20 minuti. Hot ‘Lanta, in cui è protagonista soprattutto l’hammond di Gregg, è solo (si fa per dire) l’antipasto che anticipa il capolavoro del disco: In Memory Of Elisabeth Reed, a firma Dickey Betts. Il brano si sviluppa in tredici minuti in cui convenzione e tradizione vengono superate e la musica degli Almann inizia a esplorare nuovi territori: è rock, è blues, è soprattutto jazz, è quel modo di suonare che prenderà da lì a poco l’appellativo di fusion. A proposito delle modalità con cui il brano venne suonato, Duane Allman raccontò di essersi ispirato ai moduli espressivi contenuti in A Kind Of Blue di Miles Davis, un disco che il chitarrista conosceva a menadito. A intrigarlo era l’idea di Davis di gestire l’improvvisazione negli assoli: non lavorare sulla progressione di un accordo, ma concentrarsi invece su una singola scala o su una sequenza di scale, in modo da sbrigliare al massimo la fantasia e la libertà interpretativa. Chiudono il disco i venti tre minuti di Whipping Post, madre putativa di tutte le jam, in cui al tiro incrociato delle chitarre di Betts e Allman, si aggiunge una performance magistrale della sezione ritmica capitanata dal basso potente di Berry Oakley, che un anno dopo farà la stessa tragica fine dell’amico chitarrista (anche lui in moto, e peraltro a qualche isolato di distanza da quello in cui morì Duane).

Un’altra piccola storia legata alla genesi di At Fillmore East riguarda la copertina dell’album. Il vinile venne pubblicato con due foto in bianco e nero. Nella prima, il fotografo Jim Marshall, immortalò la band innanzi alle casse degli strumenti; nella seconda (quello sul retro), Duane pretese che lo stesso soggetto della cover fosse interpretato dai rodies, come sorta di ringraziamento per aver reso possibile lo svolgimento e la perfezione tecnica dello show. E siccome uno dei roadie più apprezzati e amati dal gruppo, Twiggs Lyndon, in quel momento si trovava in prigione, Duane ebbe l’idea di mettere una foto di Lyndon in copertina, facendola sembrare appesa al muro su cui erano appoggiate le casse degli strumenti.

Duane Allman, come abbiamo raccontato, morì qualche mese dopo l’uscita del disco e non potè godersi il successo planetario che, letteralmente, travolse la band. Fu seppellito al Rose Hill Cemetery di Macon, dove in vita era solito rifugiarsi per meditare, suonare la sua acustica e godere di una pace che ancora non sapeva sarebbe stata, di lì a breve, eterna. Gli Allman al completo suonarono al suo funerale e la loro versione di Will The Circle Be Unbroken pare sia stata in grado di far piangere anche gli angeli. “Che il cerchio si chiuda. Addio, Signore, addio. C’è una casa migliore che sta aspettando. In cielo, Signore, in cielo.”  


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