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REVIEWSLE RECENSIONI
13/11/2018
Julia Holter
Aviary
Ha senso, in un'epoca in cui il tempo dell'ascolto si è fatto sempre più distratto e frammentato, dove la musica è sempre più un sottofondo per altre attività e non un qualcosa di cui godere per se stessa, pubblicare un lavoro dove la coerenza e la coesione dell'insieme costituiscono un vero e proprio requisito sine qua non per potervisi accostare?

È uscito il nuovo album di Julia Holter ma a tema, come spesso accade in questi tempi complicati, non c'è se si tratti di un disco bello o brutto. “Aviary” è un doppio e dura 90 minuti, sono in tutto 15 brani la cui durata media si aggira attorno ai sei minuti, con picchi anche da sette e otto...

Ecco, diciamo che la discussione, prima ancora di entrare nel merito specifico dei contenuti, è stata monopolizzata da questi aspetti per così dire di contorno.

Ha senso, in un'epoca in cui il tempo dell'ascolto si è fatto sempre più distratto e frammentato, dove la musica è sempre più un sottofondo per altre attività e non un qualcosa di cui godere per se stessa, pubblicare un lavoro dove la coerenza e la coesione dell'insieme costituiscono un vero e proprio requisito sine qua non per potervisi accostare?

E così è naturale che si sia avverata la profezia di Carlo Bordone, uno che di musica ne mastica e ne capisce molta di più del sottoscritto. Scriveva su Facebook qualche giorno fa che siccome quasi nessuno avrà il tempo, la pazienza e (aggiungo io) l'habitus mentale di ascoltare questo disco tutto intero, la gente si dividerà essenzialmente in due schieramenti: quelli che grideranno al capolavoro a prescindere, trascinati dall'imponenza e dalla complessità del concept e quelle che, influenzati esattamente dagli stessi fattori, liquideranno il tutto come “una palla mostruosa”. Sta andando esattamente così, a giudicare dai commenti che leggo quotidianamente in rete.

Chi ha ragione, a questo punto? Premettendo che a me Julia Holter piace tantissimo e ammettendo che non siamo mai stati di fronte ad un'artista che abbia scritto musica per così dire lineare, occorre ammettere che a questo giro l'asticella della complessità sia stata alzata notevolmente.

“I found myself in an aviary full of shrieking birds”: è una frase di “The Master of the Eclipse”, un romanzo della scrittrice di origine armena Etel Adnan che avrebbe rappresentato la fonte di ispirazione principale per il titolo del disco. Ritrovarsi in una voliera piena di uccelli che urlano. Non dico che renda perfettamente l'idea dell'esperienza che ho fatto ascoltando questo quinto album della cantautrice e musicista americana ma ci siamo andati parecchio vicini.

Abbandonata la raffinata perfezione plastica di “Loud City Song” e soprattutto del precedente “Have You In My Wilderness”, vero e proprio compimento di una scrittura complessa ma sempre e comunque accessibile, questo nuovo lavoro si abbandona a peregrinazioni ultra-dilatate nei meandri della libera espressività della sua autrice, mai così a suo agio, a detta sua, col fluire spontaneo della propria scrittura.

La prima bozza è nata in camera sua, ha dichiarato in una delle numerose interviste uscite di recente, successivamente ha sviluppato le idee assieme ai suoi musicisti e poi è ritornata in camera ad aggiungere gli ultimi ritocchi. Inoltre, particolare non da poco, questa volta non si è posta limiti di sorta, durante il processo di editing. Nel caso avesse trovato una particolare melodia o frammento armonico che si sentisse in dovere di far durare più del necessario, lo avrebbe fatto dunque senza esitare.

Ecco perché i brani durano così tanto, ecco perché la ripetizione, a volte a livello di mantra ossessivo, sembra essere una delle cifre fondamentali del disco. Ecco perché (ed è forse l'elemento che lo rende più ostico) la maggior parte degli episodi sembra svilupparsi in maniera talmente priva di schemi da apparire disorientante, quasi si trattasse di un'unica, infinita session di improvvisazione.

Niente strumenti convenzionali, tra l'altro, niente elettronica, se si esclude la tastiera suonata da lei stessa. L'impronta identitaria di “Aviary” è orchestrale, un Pop cameristico che però di “popular” ha decisamente poco, muovendosi essenzialmente tra il Free Jazz, la musica barocca e quella contemporanea. Ci sono momenti leggermente più accessibili (soprattutto i singoli “I Shall Love 2” o “Words I Heard”, ma anche la vivace “Wether”, che apre il disco subito dopo l'intro fragoroso di “Turn the Light On”, che ci immette nel cuore del lavoro senza la minima esitazione.

Altrove le cose si fanno più ostiche, come nel caos organizzato e multiforme di “Everyday is an Emergency” o nella sperimentazione eclettica di “Voce Simul”, “Caithius” e “Colligere”, dove paradossalmente ai titoli in latino pare affidato il livello più cerebrale ed ermetico di tutto l'insieme.

Impossibile mantenere desta l’attenzione per tutto il tempo, impossibile avere le idee chiare con un ascolto superficiale, decisamente alta la probabilità, anche nel caso di immersione prolungata, di perdersi qualche passaggio cruciale per strada e di ritrovarsi a metà, smarriti, scoraggiati e probabilmente anche un poco annoiati.

È un disco intricato, che denota un'approfondita conoscenza musicale da parte di chi l’ha scritto ma che, allo stesso tempo, ne richiede una piuttosto simile a chi vi si accostasse con passione e senza pregiudizi.

Non voglio dire che si tratti di roba per addetti ai lavori ma di sicuro non è roba per tutti. Per non parlare poi dei testi, un complesso mosaico a più strati dove Sant'Agostino convive con Puskin, in una ridda di citazioni e riferimenti, dalla cosmologia tolemaica al buddismo nepalese, da richiedere forse un commento, così come accadeva con certi poemi della nostra storia letteraria.

L’ho ascoltato più volte, non saprei dire quante. L’ho ascoltato dall'inizio alla fine e devo ammetterlo, non sempre è stato facile arrivare in fondo. Punti di riferimento se ne trovano pochi per cui ogni tanto ti sembra un capolavoro, altre volte sbadigli dalla noia e ti chiedi chi mai te l’abbia fatto fare.

Esattamente i due schieramenti di cui sopra, insomma. La Holter stessa, rispondendo ad una domanda precisa su quanta California ci sia esattamente in questo disco (lei che vi ha abitato e lavorato per parecchio tempo) ha detto chiaramente che questo insieme di bellezza e bruttezza, di armonico e allo stesso tempo fastidioso, le ricorda molto quella zona degli Stati Uniti e che, allo stesso tempo, è una delle caratteristiche principali di questo nuovo album.

Si può dire che sia da ammirare per il suo coraggio, perché in un'era di distrazione cronica e dispersione compulsiva dell’attenzione, realizzare un disco così significa fregarsene delle circostanze favorevoli e propendere innanzitutto per il bene dell'ascoltatore. Si può, al contrario, accusarla di presunzione, di eccessive manie di grandezza, perché farsi prendere la mano a questi livelli, senza guardare l'orologio quando tutto ciò che conta ormai sono le playlist e i ritornelli immediati, è un comportamento arrogante e menefreghista, oltre che commercialmente suicida.

Francamente non saprei. Ho dedicato ad “Aviary” molte ore del mio tempo e l’ho fatto perché penso che Julia Holter, per quello che ci ha fatto vedere finora, queste ore le meriti alla grande. Nonostante questo, non ne sono venuto a capo. La mia inesperienza, la mia scarsa competenza, hanno fatto sì che non riuscissi a sciogliere il mistero in esso contenuto. Potrebbe anche essere che non sia del tutto colpa mia, che davvero in questi 90 minuti ce ne siano dopo tutto parecchi di troppo e che l'ispirazione, che a lei non è mai mancata, sia qui presente in quantità minori.

Chi ha voglia e tempo giudichi da sé. Io per adesso sono sfinito, ho bisogno di dedicarmi ad altro.