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REVIEWSLE RECENSIONI
02/09/2018
Dizzy
Baby Teeth
Un pugno di canzoni pop, che è facilissimo connotare con la parola “dream”, e che possiedono un mood trasognato, in cui tastiere e chitarre cesellano languide atmosfere in bilico fra romanticismo e illusione ipnagogica

Si chiamano Dizzy, arrivano da Oshawa, una cittadina posta all’estremo est del Canada, sulle sponde del lago Ontario, nota per allevamenti di cavalli e perché una suntuosa dimora della zona viene usata come location per alcune pellicole hollywoodiane.

Non c’è molto da fare, a Oshawa, e quando si è giovani e si cresce in provincia, il rischio è quello di ammazzarsi di noia. Lo sanno bene i fratelli Charlie, Alex e Mackenzie Spencer e la di loro amica, Katie Munshaw, che per sopravvivere all’inedia di una vita senza molte prospettive hanno iniziato a suonare. Per evadere, darsi una speranza, cercare il futuro, proprio là, dove tutto possiede la staticità di un soffocante presente.

Un po' come quei ragazzi delle periferie disagiate, che per evitare di darsi al crimine, trovano nel pallone un motivo di riscatto, una strada per evadere e diventare grandi, senza bruciarsi l’anima.

La musica libera dalle catene e fa spiccare il volo, esattamente come succede alla band nella suggestiva copertina di questo disco d’esordio: un pugno di canzoni pop, che è facilissimo connotare con la parola “dream”, e che possiedono un mood trasognato, in cui tastiere e chitarre cesellano languide atmosfere in bilico fra romanticismo e illusione ipnagogica.

Baby Teeth è un disco che batte strade risapute e che rielabora senza molta originalità un suono che richiama inevitabilmente alla memoria quello di band ben più note e dal nobile pedigree (London Grammar, Beach House, etc.).

Il lavoro, però, è ben fatto, gli arrangiamenti danno equilibrio e uniformità alla scaletta, e la voce di Katie Munshaw, pur senza essere connotata da un timbro particolare o pregevolezze tecniche, tiene con efficacia la barra del timone per i quasi trequarti d’ora di musica. Non vengono dispensate, invero, grandi emozioni, e di tanto in tanto, affiorano un po' di noia e la sensazione di avere a che fare con una band tardo adolescenziale, che ancora deve perdere il denti da latte (quelli del titolo, per intenderci), per trovare una maturità compositiva che sia connotata da una propria identità e un proprio stile.  

Se scrivessi, però, che questo disco è da buttare, mentirei: le dieci canzoni del lotto si fanno ascoltare, e ci sono anche dei momenti (Pretty Thing e Backstrocke su tutti) che fanno intravvedere ottime potenzialità. Insomma, una prova piacevole, ma decisamente un po' incolore.