Ai comportamenti di un uomo innamorato si possono perdonare di buon grado l'eccesso, la scarsa misura, i momenti di poca lucidità, il trasporto, la foga, l'accumulo anche scriteriato e quella voglia di voler fare, mostrare, che può facilmente portare l'uomo di cui sopra a uscire dai bordi, a fare il passo più lungo della gamba, a pisciare un pochino fuori dal vaso.
Ora, fermo restando come ognuno di noi possa decidere quanta sincerità ci sia in questo Babylon (io credo parecchia), l'opera di Damien Chazelle sembra proprio questo, un atto d'amore totale nei confronti del cinema, della sua storia, della sua magia, un atto d'amore strabordante, a tratti eccessivo, riempito a forza di un sacco di cose, suggestioni, volti, citazioni, episodi.
E' un'opera che non manca in diversi passaggi di andare un poco fuori fuoco, o ancor meglio "su di giri", come un motore che consuma un sacco di benzina ma dentro il quale alla fine è presente il carburante per alimentare una giusta causa, una passione sconfinata, un sogno lungo ormai ben più di un secolo, un amore individuale (nella fattispecie) e soprattutto collettivo, nonostante (e forse proprio per questo) la mutata e crescente difformità di fruizione alla quale il cinema è sottoposto ormai da diversi anni.
E allora, se così è, accettiamo di buon grado anche l'imperfezione narrativa di questo Babylon, un'omaggio a un'arte, a una delle sue epoche (la fine del muto), realizzata in un connubio esagitato tra antico e moderno, un piccolo viaggio per innamorarsi una volta ancora della macchina cinema.
Los Angeles, seconda metà degli anni Venti. Ad una festa dai toni orgiastici e licenziosi, condita di donne, droghe, alcol, nani e ballerine, gravitano i tre protagonisti (non i soli e non solo loro) di quella che sembra essere una vera e propria Babilonia: Manuel Torres (Diego Calva) è un umile immigrato messicano che ha il compito di introdurre alla festa della Kinoscope, casa cinematografica in ascesa, un vero elefante; Jack Conrad (Brad Pitt) è un divo del cinema muto sulla cresta dell'onda alla ricerca di qualcosa di nuovo che possa apportare qualcosa di più profondo e innovativo all'arte di cui lui è uno dei protagonisti; Nellie LaRoy (Margot Robbie) è un'imbucata, una rozza sognatrice che arriva dal New Jersey più povero e depresso, una ragazza piena di vita, disinibita, dotata di un certo talento e che come l'altrettanto povero Manuel sogna di poter lavorare nel cinema, magari diventando proprio una grande star.
Manuel si invaghisce subito della bellissima Nellie e ha l'occasione di iniziare a lavorare proprio per Conrad, si concretizza il sogno di un'apertura verso il mondo del cinema così ambito per l'uomo. Nellie invece viene notata alla festa da un aiutante (Flea dei Red Hot) del proprietario della Kinescope che ha necessità di sostituire al volo una starlette indisposta causa eccesso di droghe e sesso estremo; per Nellie la festa sarà l'occasione per mettere piede davanti a una telecamera.
Le vicissitudini di questi personaggi e di altri ancora (il trombettista nero Sidney Palmer, la cantante Lady Fay Zhu, etc...) si svilupperanno nel corso degli anni mentre il cinema vede tramontare l'epoca del muto in favore dell'avvento del sonoro.
Damien Chazelle mette in scena il suo omaggio al cinema in maniera tonitruante ma anche nostalgica, tornando alla storia del cinema, all'epoca della Grande Depressione e del muto, agli anni delle grandi feste e delle star viziose fino a uno dei grandi momenti di cambiamento della settima arte: l'avvento del sonoro.
Nel far questo Chazelle non manca di citare episodi reali e personaggi esistiti qui in qualche modo mascherati e inseriti in quel baillamme esagerato e fracassone che è a più riprese questo Babylon. Questo passaggio fondamentale è legato in maniera chiara ed evidente alla memoria di opere classiche come, in particolare, il Singing in the rain di Stanley Donen e Gene Kelly dove il personaggio di Jean Hagen presenta alcuni punti in comune con Nellie LaRoy, almeno per quel che riguarda le difficoltà riscontrate dalle due attrici nel passaggio dalle didascalie all'uso della voce.
Al netto di un totale non sempre perfetto e riuscito, quello che si apprezza di Babylon è la sincera passione per quest'arte, una passione che vediamo (e non è la prima volta, Tarantino docet) negli occhi di una splendida (lo è sempre, ma qui più che altrove) Margot Robbie nel buio di una sala cinematografica e in un montaggio finale che ripercorre momenti di storia del cinema che ben sottolineano l'ecletticità di questa meravigliosa macchina della narrazione (per storie, per immagini), e ancora nella passione dei protagonisti per quella che, almeno in parte, diverrà l'arte della loro vita.
Gran dispiego di mezzi, attoriali, scenografici, di costumi, di girato (siamo sulle tre ore, anche fin troppo espanse) per raccontare una storia d'amore che non manca di inanellare risvolti di grande cupezza in uno sfoggio di tecnica e accumulo che sembra più volte scappare dal controllo di un regista a tratti smodato ma sinceramente (almeno così sembra) appassionato.