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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
18/10/2021
Susan Tedeschi
Back to the River
Immaginatevi Gregg Allman, Mahalia Jackson e Buddy Guy nello stesso disco… ora aprite gli occhi: avete di fronte Susan Tedeschi, pronta a creare un terremoto musicale a suon di blues, folk, gospel, soul e southern rock grazie a una voce e una chitarra graffianti, insieme ad alcune collaborazioni sorprendenti, da Tony Joe White a Gary Louris.

On the RoadBack to the River. Il significato del bellissimo disco di Susan Tedeschi, uscito nel 2008 e per lei crocevia di cospicue novità all’orizzonte, si può già intuire dalla copertina e dal titolo.

La songwriter americana di Boston, ma con avi italiani, come si desume dal cognome, è immortalata mentre suona l’amata chitarra all’interno di un tour bus. E’ chiaramente felice della sua passione, per lei la musica rappresenta l’esistenza, ma il sogno è anche quello di tornare a casa, dai suoi figli, vicino al fiume, metafora di vita, dove scorrono tutti gli affetti.

 

“Well I miss their hugs, chasing lightning bugs

They make me smile, but it’s gonna take a little while

To get back to the river, back to the river…”

“Ebbene, mi manca il loro abbraccio, inseguire le lucciole. Mi fanno sorridere, ma ci vuole ancora un pochino per tornare al fiume, di nuovo al fiume.”

 

Composta insieme al compianto swamp rocker Tony Joe White, la title track è un potente blues alla Jimi Hendrix, con tanto di wah-wah, magnificamente dispensato dalla cantautrice, che stride volontariamente con le liriche apparentemente bucoliche, ma intrise di nostalgia e voglia di correre verso ciò che alla fine giustifica tutti gli sforzi. Questa canzone è la traccia numero tre e giunge al momento giusto, facendo proseguire l’idillio di un inizio stupefacente, da incorniciare. Infatti si rimane prima piacevolmente folgorati dalla potente e ruvida "Talking About", in cui l’ospite nonché amico di lunga data Doyle Bramhall II, coautore del brano, ricorda a tutti quanto sia stato influenzato dal suo mentore Stevie Ray Vaughan, e poi ci si immerge in una ballatona straordinaria che fa viaggiare nel tempo atterrando nel periodo dei Beatles, quando George Harrison scrisse "Something". Con il contributo del fantasioso bassista Ted Pecchio e del noto produttore John Leventhal, vero mago del suono, "700 Houses" ha un riff di organo e fiati indimenticabile, impreziosito dalla calda voce di Susan e da meravigliosi cori gospel. Fa capolino pure il marito Derek Trucks che dà il suo inconfondibile tocco con l’amata Gibson, ammantando ulteriormente il pezzo di un’atmosfera onirica. La sua non sarà solo una comparsata, ma anzi imperverserà nelle successive "Love Will", piacevole rhythm and blues screziato di folk rock, "Butterfly", poderosa, come se fosse uscita da un disco dell’Allman Brothers Band con pennellate di slide da brividi e pure un clavinet da favola, quest’ultimo merito dell’ospite Robert Walter, e soprattutto brillerà nell’allegra "People", il cui ritornello entra subito in testa, tanto da fischiettarlo al primo ascolto.

La Tedeschi con questo progetto si distacca dal precedente Hope and Desire, disco di cover principalmente di derivazione soul, registrato tre anni prima e raffinato tentativo di concentrarsi più sulle doti vocali che quelle compositive. Back to the River luccica di novità, sorprendenti collaborazioni, e la ciliegina sulla torta viene messa da Gary Louris. Il leader dei Jayhawks non solo contribuisce alla stesura di Learning the Hard Way, ma vi partecipa attivamente, registrando un assolo di chitarra come solo lui sa fare e cimentandosi insieme a Doyle Bramhall II ai cori. Ecco un’altra vetta dell’opera, sancita dall’instancabile lavoro sulla sei corde della padrona di casa che sul finale vira con naturalezza non ostentata in territorio “santaniano”, alla Oye Como Va per intenderci, lasciando di stucco per duttilità.

L’incredibile simbiosi con il suo strumento, quel timbro che la avvicina a Bonnie Raitt e Janis Joplin pur mantenendola unica e originale, e una ritrovata vena di scrittura caratterizzano in lungo e in largo questo album, che in "Revolutionize Your Soul" strizza l’occhio agli amati Delaney & Bonnie. Unica eccezione "There’s a Break in the Road", dal songbook del maestro Allen Toussaint, precedentemente interpretata nel 1969 da Betty Harris, cantante americana famosa soprattutto per aver riproposto quell’ode alla solitudine e al desiderio dal titolo "Cry to Me", già resa celebre grazie a Solomon Burke.

Ascoltare "There’s a Break in the Road" fa capire come si possa rivisitare la tradizione con rispetto, aggiungendo anche un pizzico di novità. Un organo e un Wurlitzer stralunati alla Gregg Allman, che tagliano a fette l’ordinarietà, condotti dall’indiavolato Matthew Slocum, ci catapultano a New Orleans, convinti di incontrare a breve il fantasma di Dr. John. E una spolverata di fiati dà forza alla vocalità di Susan Tedeschi, potente e spettrale, dominatrice pure nei ritmi sincopati che a un certo punto caratterizzano la canzone.

 

“Sono una persona molto emotiva.  Essere una donna mi fa sentire come in dovere che tutto vada bene per la tua famiglia, insomma vorresti che qualsiasi cosa fosse perfetta. Ma è impossibile controllare tutto. Ero solita provare a farlo, al punto da rendere la questione una mania e ho dovuto imparare a smettere di comportarmi così. In questo senso Derek è stato davvero una guida per me.”

 

Queste riflessioni permettono di appropinquarci all’ultima, bellissima traccia in scaletta e ben rispecchiano le scelte per il futuro prese dall’artista, poco dopo la pubblicazione di questo album.

"Can’t Sleep at Night" fotografa le inquietudini esplicitate poco sopra dalla musicista americana, che sceglie, per trasmetterle, un blues autografo ricco di pathos, in cui si percepisce inoltre quanto sia stata influenzata da Buddy Guy.

L’autrice in questo pezzo apre il suo cuore, ci porta direttamente a casa propria, nella personale stanza disordinata e annebbiata da ricordi dolorosi a cui si reagisce volgendo lo sguardo fuori, oltre una finestra che illumina di speranza. Irrequietezza, disagio, sensazione di essere inadeguati a ciò che richiede quotidianamente l’esistenza si fanno largo nel testo fino alla strofa finale, che fa subentrare la fiducia: una figura umana o, forse, anche divina, aiuterà a superare i momenti difficili.

 

“And when I close my eyes are you by my side? Have I

realized that you’re my everything, everything Lord?”

“E quando chiudo I miei occhi mi sarai vicino? Mi sono resa conto che tu per me sei tutto, tutto Signore?”

 

Sicuramente il legame con il marito Derek Trucks ha contribuito a rasserenare l’animo in pena di Susan, che a partire dal successivo progetto ne diventerà inseparabile compagna pure dal punto di vista lavorativo con l’accorpamento di parte delle due band.

Eccoci giungere, così, alla formazione della formidabile Tedeschi Trucks Band, uno dei rari sodalizi in musica in cui davvero l’unione fa la forza in maniera duratura.

Un gruppo, usando ancora un’espressione della Tedeschi, che è diventato una famiglia e, come una famiglia, ha affrontato svariate vicissitudini, meravigliose e tragiche. La crescita artistica, la libertà creativa , il successo, ma anche la triste dipartita di Kofi Burbridge, alcuni dolorosi cambi di line-up.

Tutto ciò ha comunque forgiato e rafforzato sentimenti e intenti di tale magico ensemble di musicisti geniali, rendendolo uno dei migliori live act su questa Terra.

E le ultime due pubblicazioni, Live from the Fox Oakland (2017) e il recentissimo Layla Revisited (Live at LOCKN’) ne sono esempio lampante.