Tuesday Night Music Club del 1993, album d’esordio della ex-corista Sheryl Crow, resta tutt’oggi il suo lavoro più riuscito. Un disco tanto bello, da ottenere gli sperticati elogi della stampa, un riscontro di vendite eclatante (sette milioni di dischi venduti) e la bellezza di tre Grammy Award vinti (in carriera ne arriveranno altri sei). Eppure, se da un lato quell’album consacrò la semi-sconosciuta Crow a stella di prima grandezza del rock (pop) a stelle e strisce, dall’altro ha rappresentato anche un pesante fardello da portarsi sulle spalle, una sorta di unità di misura in base alla quale valutare tutti i successivi lavori. Dischi che, pur avendo sempre avuto buoni, se non ottimi, riscontri di vendite (ad esempio, Sheryl Crow, sophomore del 1996), hanno palesato pure una scrittura divenuta presto standardizzata, incapace di uscire da quei clichè, che se un tempo erano vincenti, col passare del tempo si sono sempre più sbiaditi, tanto da lambire il cosidetto blocco creativo. Dopo alti e bassi, la Crow, a cui bisogna dar merito di aver superato brillantemente anni difficili (la battaglia contro il tumore al seno, la bruciante separazione dal fidanzato, il ciclista Lance Armstrong), da qualche album a questa parte sembra, tuttavia, dare segni di ripresa e continuità. 100 Miles From Memphis (2010) era un ottimo lavoro, rilassato e solare, mentre la svolta country di Feels Like Home (2013) aveva spinto la stampa statunitense a lucidare nuovamente quelle stellette, che in altre occasioni erano rimaste nel cassetto a prendere polvere. Dopo quattro anni, questo nuovo Be Myself conferma il trend positivo di un’artista che sembra, almeno in parte, aver ritrovato un buon livello di ispirazione. La formula, è ovviamente, quella che già conosciamo e che rappresenta il marchio di fabbrica della songwriter originaria del Missouri: rock classico e solare, appeal radiofonico, sottotraccia roots abbondantemente diluita e, nel caso specifico, una spruzzatina di elettronica. Insomma, i sapori sono più o meno quelli che conosciamo dagli anni ’90 (e Be MySelf è un titolo adeguato); tuttavia, se è vero che le spezie usate sono (quasi) sempre le stesse, quantomeno la cuoca è tornata a un accettabile livello di creatività. Forte della presenza di un pugno di ospiti di assoluto valore (Gary Clark Jr., Doyle Bramhall II, Toby Gad, Fred Eltringham), la Crow sviscera il suo consueto repertorio di eleganti canzoni pop-rock, che non faranno mai la differenza fra vivere o morire, ma che nei momenti più felici sanno conquistarsi ripetuti ascolti. Il pop dell’opener Alone In The Dark e gli umori funky della successiva Halfway There stanno in piedi grazie al mestiere della cinquantacinquenne songwriter, ma non possiedono i numeri necessari a farsi ricordare alla distanza. Molto meglio sono il mid tempo dell’ombrosa Long Way Back, in cui la Crow sfodera la grinta dei bei tempi e uno di quei ritornelli killer che l’hanno resa famosa, e il rock dagli echi southern della title track. Le vette dell’album arrivano, però, con il refrain fulminante dello swamp rock di Roller Skate, con la languida ballata Love Will Save The Day, tra le canzoni più belle mai scritte da Sheryl, e con l’irresistibile pop-rock di Strangers Again, che rispolvera la cifra stilistica e l’urgenza degli anni d’oro. Il disco scivola verso la fine senza altri sussulti, con due buone canzoni, il country pop di Rest Of Me e il blues elettrico di Heartbeat Away, e due riempitivi, Grow Up e Woo Woo, che potevano essere tranquillamente omessi dalla scaletta. Resta intatta, comunque, la buona impressione suscitata dai due dischi precedenti, e cioè quella di un artista costretta a misurarsi sempre con il proprio glorioso passato, ma capace, comunque, se non di eguagliarlo, di tenere almeno dritta la barra del timone. A volte, con mestiere, altre grazie alla ritrovata vena di un lontano talento.