In generale non ho una grande fiducia nell’espressione “Intelligenza Artificiale”. Fuggo sempre quando ne sento parlare o trovo un articolo a riguardo, perché mi piace che il futuro mi sorprenda, non che mi sovrasti, mi piace pensare di essere io quello che sorprenderà il proprio futuro. Ecco, vorrei che il futuro fosse sorpreso da me. Eppure, scopro un’altra verità che mi permetto di definire incontestabile: l’emozione vince su tutto.
Vado oltre: se una cosa di cui diffido si fa carico improvvisamente di emozioni positive, per me è una cosa buona, la cui esistenza diventa giustificata. Il punto è questo: ho ascoltato qualche ora fa una cosa che non esisteva, che non poteva e può esistere, alla cui irrimediabile assenza ho pensato per anni come ad uno dei più grossi rimpianti artistici di mia comprensione. Eppure quest’ascolto irreale mi ha emozionato, estasiato. Ho visto un mondo migliore. Ecco, in questa accezione, controllata ed a fini artistici, l’intelligenza “artificiale” ha uno scopo: opinabile, liberamente fruibile o rifiutabile, ma assolutamente da mettere sul piatto. E ve lo devo raccontare.
Andiamo con ordine: per chi scrive, SMiLE dei Beach Boys è uno dei dischi più belli mai concepiti.
Aggiusto il tiro subito, perché rischio seriamente di essere banale lodandone appena la bellezza. Meglio esagerare, anche traboccare, ma almeno rendere l’idea. È uno dei dischi più coraggiosi, più in avanti rispetto al passo del proprio tempo e sicuramente uno dei più romantici, perché è rimasto sospeso per decenni nella propria incompletezza, insieme al proprio autore.
Brian Wilson, leader dei Beach Boys (avete presente quel falsetto tanto caratteristico? Lui), entrò in una personalissima e profonda crisi nel 1965. Non ancora ventitreenne (!), stava per partire in tournée, si aggrappò alla scusa che avesse paura di volare e non partì. Glen Campbell lo sostituì dal vivo provvisoriamente e lui si rintanò in studio. Capì che voleva scrivere, sfruttare le sue doti di arrangiatore e dividere la macchina dei Beach Boys tra chi avrebbe portato in giro la musica surf e chi nel frattempo avrebbe potuto dedicarsi alla scrittura di nuovo materiale. La cosa fu talmente catartica che nel giro di tre dischi, ovvero un anno (al tempo la media dei grandi accordi discografici prevedeva questo, tre dischi l’anno), arrivò a congelare le ragazze statunitensi in "California Girls", saldò la collaborazione con l’orchestra della Wrecking Crew (il suono della maggior parte della discografia che conosciamo di quel decennio, il più celebre e ineguagliato collettivo di turnisti della storia della musica pop) e sintetizzò i concetti di amore e crescita col disco Pet Sounds.
Brian Wilson si ritrovò a lavorare fiancheggiato dal paroliere di turno (Tony Asher), col primo che metteva le musiche, le melodie e spesso qualche immagine, l’altro che vi aggiungeva le parole. Poi il resto dei Boys tornava dal tour, sugli strascichi delle pazze urla per le loro hit, e si confrontavano con queste nuove musiche. Brian stava andando avanti, stava guardando oltre, si stava evolvendo, magari si stava anche isolando, ma questa formula di scrittura funzionò, anche se è giusto ricordare che il tanto acclamato Pet Sounds fu un flop di vendite rispetto ai predecessori, molto più radiofonici.
Brian Wilson continuò per la sua strada, voleva scrivere “a pocket symphony” diceva lui, una sinfonia tascabile, tanto che per la canzone che stava scrivendo, cominciata proprio durante le sessioni di Pet Sounds, cercò di arrivare ad un risultato nuovo: divise la canzone in sezioni e arrivò addirittura a registrare le singole parti in studi differenti, a seconda del sound che aveva in mente. Un progetto ambiziosissimo oggi, al limite della follia nel 1966, quando si registrava su nastro e su un 4 o 8 tracce. La bobina finale di questa canzone –giurano dei testimoni – arrivò ad essere un residuo bellico pieno di frammenti di scotch che svolazzavano mentre giravano e rendevano la cosa ridicola. Sta di fatto che il singolo uscì e sembrava davvero una Pocket Symphony. Era “Good Vibrations” e vendette 400mila copie in soli quattro giorni. Era la conferma per Brian che quel metodo era giusto, la bellezza non era solo nella sua testa.
Qui comincia la strada verso il disco successivo. SMiLE fu infatti concepito come un viaggio, sfruttando il metodo laborioso di “Good Vibrations”. Brian aveva tutto in testa. Come poteva fare nell’era della registrazione a nastro a pensare ad un intero disco frammentato, rimane tutt’ora un mistero. La lavorazione fu fitta, lunga e spalleggiata stavolta dal geniale artista Van Dyke Parks, un ventenne eccentrico con una penna visionaria che lo rendeva sicuramente superiore alla media dei suoi contemporanei. La fusione con le idee musicali di Brian fu micidiale. In poche settimane scrissero il grosso del disco, volevano parlare dell’America in una sorta di viaggio coast to coast, della vita e dei suoi cicli, della commedia. E poi c’era questa fissa di Brian, voleva fare una suite dedicata agli elementi naturali.
Cominciarono le registrazioni strumentali con la Wrecking Crew, e chi vi ha assistito o partecipato giura di aver respirato un’aria di creatività mai assaporata prima, con Brian che gestiva tutto musicalmente alla perfezione, pur non essendo affatto esente da difficoltà. Se da un lato infatti la Capitol Records spingeva per avere un disco in uscita per rispettare i tempi e porre fine ai continui spostamenti, dall’altro la band tornò dalla tournée ed ascoltò i risultati di quella fase creativa da cui parvero essere ancora più esclusi. SMiLE non lo capirono: forse era davvero difficile, in quella costante forma di mozzicone a cui mancava qualcosa per essere concluso, fatto sta che il loro stupore congelò Brian e lo mise in una situazione di isolamento compositivo e mentale da cui faticò ad uscirne. Sapeva di aver bisogno ancora di tempo, la Capitol spingeva, i Boys cominciarono a presentarsi in studio per cantare le idee di Brian mettendo in dubbio il significato di quei testi visionari. Per Brian e Van Dyke la fase idilliaca era terminata; c’era continuamente da giustificare i due passi precedenti per potersene permettere uno in avanti. L’equilibrio sottilissimo di quell’album precario vacillò e il disco naufragò.
Arrivati a maggio del 1967 le sessioni di SMiLE terminarono e lo studio si spostò in casa Wilson, dove venne impacchettato un album in fretta e furia, da consegnare in vergognoso ritardo. Smiley Smile fu quello, peraltro un ottimo risultato di trascrizione su disco di psichedelia. Un album schizofrenico con qualche frammento di sessione Wilsoniana accanto a canzoni registrate in salotto con tre strumenti.
La leggenda di SMiLE nacque in quell’esatto momento. Si cominciò a parlare della grandezza di quelle canzoni, che in futuro il disco sarebbe stato finito. Qualche canzone venne inclusa nei dischi successivi, rimaneggiata o riassemblata e, casualmente o meno, era sempre il punto più alto del disco. Il punto più lontano da quel presente, ma sempre il più efficace. Nel frattempo Brian cadde in depressione, si estromise sempre di più dalle produzioni dei dischi, dalla vita Beach Boysiana, e si ritrovò alla tenera età di ventisei anni a piazzarsi dentro il proprio letto per fumare, mangiare, ingrassare. Quando dopo qualche anno, a metà anni Settanta, tornò per mettere la propria voce e partecipare alle registrazioni coi ragazzi, la sua voce soave, il suo falsetto che aveva fatto innamorare e ballare milioni di persone con “I get around” o “Don’t worry, baby” non esisteva più. Sparito. E nessuno doveva azzardarsi a parlargli di SMiLE, il suo fallimento più grande.
Quanto avrei voluto esserci in quegli anni per mettergli una mano sulla spalla e dirgli: “Brian, guarda che non è colpa tua. Te lo dico io che vengo dal futuro. È solo che hai scritto un disco che per essere assemblato avrebbe bisogno di un computer, di un monitor, di poter vedere tutte quelle tracce coi tuoi occhi, anziché sentirle dal tuo orecchio”. Avrei voluto consolarlo, metterlo in pace col proprio fallimento. Incapace di capire la grandezza del suo concetto rispetto ai mezzi tecnologici a disposizione, probabilmente non mi avrebbe capito.
Fatto sta che passano i decenni, i Beach Boys invecchiano, Brian ne passa di cotte e di crude ma supera tutto. Si è ripreso, suona addirittura il basso e porta in giro il suo lavoro finalmente apprezzato, Pet Sounds, a trent’anni dalla sua uscita. Un giorno, ad una festa di un membro della propria band, si siede al piano e comincia a suonare un pezzo di SMiLE di fronte allo stupore di tutti, che trattengono il fiato. “Ehi Brian, perché non la suoniamo dal vivo?”. “Oh, ok…!”. Così, come se niente fosse, un tabù di trent’anni fu sfatato in nemmeno cinque minuti. Perché suonare dal vivo una canzone volle dire in realtà molto di più. In un attimo stavano parlando di fare un concerto intero di canzoni di SMiLE. Ciò che poco prima era innominabile sarebbe diventato per mesi l’unico argomento.
Per la causa fu fiancheggiato dall’arrangiatore della Brian Wilson band, quel Darian Sahanaja autentico responsabile di quello che stava per diventare un miracolo. Ed è proprio lui, cercando con Brian accanto a sé di montare quelle tracce infinite e finalmente digitalizzate, ad aver portato testimonianza che in fondo, a tutti quei cocci, non mancava mica così tanto per essere conclusi. Di fatto le basi strumentali c’erano tutte, ma sulle parti vocali il discorso era diverso. Mancavano. Andavano riscritte, pensò Darian. Brian cercò un numero in agenda, prese il telefono e lo compose: “Ehi, Van Dyke! Sono Brian. Sto finendo SMiLE. Non mi ricordo una parola di una canzone, puoi aiutarmi?”. E così anche Van Dyke Parks si ritrovò a scrivere di nuovo parole (e a ricordare quelle scritte ma mai registrate) per quel disco che pareva voler restare eternamente incompiuto.
Brian Wilson - "Roll Plymouth Rock" - 2004
Il miracolo era avvenuto. Nel 2004, a 37 anni dal collasso del progetto, SMiLE trovò una sua nascita. I demoni di Brian furono in parte scacciati e il mondo interò poté finalmente ascoltare in forma lineare e omogenea una rappresentazione di quell’album leggendario. Qualcuno, come il sottoscritto, poté ammirarlo per la prima volta, inconsapevole di tutta la storia pregressa. Ricevette molti apprezzamenti e riconoscimenti, tanto che nel 2011 in onore del 50esimo anniversario della nascita dei Beach Boys, fu organizzata un’uscita delle Smile Sessions originali, ripulite e riassemblate, seguendo l’ordine della fresca riedizione di Wilson.
The Beach Boys - "Do You Like Worms (Roll Plymouth Rock)" - 2011
Certo che una cosa, anche in questa edizione originale, mancava, e furono le nuove parole, quelle incise nel 2004 da un Brian sessantenne di cui non poteva esserci traccia nelle bobine del 1966. Chissà cosa sarebbero state quelle melodie cantate da quella voce giovane e speranzosa. La tipica situazione in cui due vie di mezzo ti fanno intuire il risultato finale, ma neanche la loro somma può accontentarti per intero.
Un paio di notti fa mi compare questo articolo: “Fan dei Beach Boys conclude l’album Smile con l’aiuto dell‘intelligenza artificiale”. Sbarro gli occhi. Anche perché sono io stesso uno dei tanti fan mixer di SMiLE, con la mia versione ricostruita. E le voci che ci ho incollato sono quelle del Brian vecchio, chiaramente. Il fan dell’articolo si chiama Mike LeRoy e questo è il link della sua dichiarazione.
Non ci penso due volte: cuffie e play. L’inizio è il solito, corale di "Our Prayer", "Heroes and Villains" e pur senza passare dall'abituale doo wop di "Gee" siamo dentro a SMiLE. Il disco nella parte iniziale scorre in modo non troppo sorprendente per chi come me lo conosce già bene, anche perchè tra le prime tracce ci sono canzoni che già storicamente erano complete di tutto, musica e testo, da sempre. Per questa prima parte quindi nessuna grossa sorpresa da attribuire al contributo dell'AI, a parte la continua sensazione di stare ascoltando un disco meraviglioso. Ma non starò qua a tesserne le lodi, non in questa occasione, perché non è questo il punto. Il punto è che quando arrivano i momenti sparsi di quella manciata di canzoni prima prive di testo, sentire cantare poi quelle parole da una voce giovane che non è mai esistita ma che risulta effettivamente quella di Brian, mi ha dato una sensazione indescrivibile. Parole scritte nel 2004 cantate dalla voce di Brian Wilson del 1967. Credo di non averlo trattenuto quel didascalico sorriso beffardo durante quello che ritengo essere stato il più completo ascolto di SMiLE che abbia mai fatto in vita mia. Ho pensato se fosse giusto. L’ho pensato anche nei confronti di Brian.
Le domande si affastellano: una persona sarà libera di fallire irrimediabilmente? Sarà libera di sabotarsi? O abbiamo bisogno di uno sconosciuto youtuber che si permetta di rimediare all’errore più grosso della nostra vita (per cui abbiamo pagato) e di piazzarlo ripulito e online senza consenso? Che cos’è, uno sconto indesiderato della pena? È vero, questa cosa è eticamente inaccettabile.
Eppure quel sorriso che ho sentito nascere durante l’ascolto di “Do you like worms?”, “Child is father of the man” e “Love to say Dada”, per dirne alcune, è stato puro. Emozione pura. Canzoni che avevano finalmente trovato un senso compiuto nell’arco di 37 anni, nel volo pindarico ed esistenziale della stessa persona, paiono essersi accompagnate in maniera definitiva grazie ad un’innaturalezza di fondo, forse il più sincero specchio ed unica fonte di vita di un disco adesso davvero sospeso tra due punti nel tempo. E che, parlando meno la lingua informatica e un po’ più il linguaggio comico di SMiLE, solo con un trucco circense hanno potuto finalmente unirsi.
The Beach Boys - BOOKOFF Smile [full album w/ ai] from Mike LeRoy on Vimeo.