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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
19/07/2019
Marco De Annuntiis
Beat generation e pop leggero. I mattoni di una grande personalità
“Credo che un artista, e soprattutto un musicista, non debba mai temere la leggerezza: più il bagaglio è leggero più il viaggio è agile”. (M. De Annuntiis)

Inizio col dire che mi trovo poco d’accordo con l’esempio che ci farà De Annuntiis sulla leggerezza. Far passare diamanti di contrabbando significa dover far finta di niente perché nessuno li scopra. In una canzone, i diamanti voglio che invece arrivino a tutti. Non posso paragonare le due situazioni… e scoprirete poi di cosa parliamo.

Ma archiviato questo penso che quella che seguirà, in una sintesi “giornalistica”, sia una delle chiacchierate più interessanti delle ultime mie puntate qui su LOUDD. Ritrovo un amico, un vecchio conoscente in musica che ha pubblicato questo bellissimo VINILE dal titolo “Jukebox all’Idroscalo”, per la Cinedelic e per la Interbeat di Luigi Piergiovanni, lo storico Rosybyndy che nel DNA ha solo la trasgressione per propagandare la non forma delle abitudini e dei cliché. Appunto sovvertire i cliché senza troppo allontanarsi dalla riva delle forme conosciute, senza applicare ri-forme ma sottacendo una personalità fortissima, ricca di equilibrio e di artistica indipendenza dalla massa popolare. Ed è un continuo confronto con il comun pensare, dall’essere all’apparire, dal vestito alla voce appena sghemba che fa sorride e che distrae. E chi ha personalità forte per superare le evidenze, ha anche il dovere di pescare quei famosi diamanti che devono tutt’altro che restare segreti. E quel che colpisce è la sua ottica disegnata a matita non da una vena romantica e scanzonata, ma da un pittore sovversivo che beve alcool e sputa sulle scarpe per dimostrare che non è pioggia quel che cade, ma il nostro stesso decadentismo.

“Pensa che addirittura i videoclip di ‘Rolls-Royce’ di Achille Lauro e della mia ‘Come De André’ hanno la stessa carta da parati sullo sfondo: con la differenza che la sua è una scenografia e la mia è la vera casa in cui abito”. (M. De Annuntiis)

Esattamente qui accade la differenza: da una parte l’apparire e la scena del mercato, dall’altra il vissuto. “Jukebox all’Idroscalo” è una crasi estetica tra la leggerezza pop delle strutture più adesso al popolo con le mitologie letterarie tipo Ginsberg e Pasolini, figli della rivoluzione morale e formale, padri padroni di una produzione letteraria che ormai è divenuta una moda per saccenti e superficiali partigiani del sapere… “partigiani” che non sanno come sporcarsi le mani ma solo cliccare con degli stupidi mouse. Un disco che va assaporato con ironia certamente, ma anche con gravità e presunzione, con un punto fermo sulla verità e non sulle irrazionalità. Il male di questo tempo nichilista: l’irrazionalità su cui fa leva qualsiasi oratore che si rispetti.

Va ascoltato per bene il nuovo disco di Marco De Annuntiis: la demolizione del mito non è importante. Importa invece demolire il bisogno di crearne a tutti i costi, spesso subdolamente indotti soltanto dalle televisioni commerciali. Come a dire: la musica di De Annuntiis è quella famosa carta da parati che è la cucina in cui vivere per davvero. Che voi siate d’accordo o no, la musica di oggi mi sembra solo e soltanto un mare di monolocali tutti uguali, sterili nel loro arredamento, inutili nella loro funzione sociale. Niente vissuto. Per fortuna, che ci crediate o no, restano gli artisti a voltare le spalle alle luci. Una volta abituati gli occhi al buio, ci si ritrova in pochi… e quei pochi sono i migliori.

Andiamo per gradi. Partiamo dalla beat generation e partiamo da Ginsberg. Cosa rappresenta per te quest’uomo, questo poeta, questo movimento?

Allen Ginsberg è stato il primo poeta “ufficiale” a fare da sponsor alla musica rock e a sdoganarla con la sua benedizione. Come tutti i beat era un personaggio scandaloso, apertamente tossicodipendente e omosessuale, ma contemporaneamente era anche un letterato accademicamente riconosciuto. Oggi le gerarchie culturali sembrano essersi invertite: Ginsberg e in generale tutti i poeti beat sono stati quasi dimenticati, mentre Bob Dylan ha appena vinto il Nobel per la Letteratura; credo che quarant’anni fa nessuno avrebbe potuto prevedere un simile capovolgimento di ruoli.

Tornando sul fronte canzone lasciami pigiare un tasto più spirituale ed uno commerciale. Cominciamo dall’anima. Pensando alla beat generation penso anche a Dylan. Riusciamo a fare un collegamento tra la tua forma canzone e il mondo di quel preciso folk che alla generazione di Kerouac deve e ha dato molto?

In realtà credo che Dylan abbia davvero interiorizzato il linguaggio visionario e musicale della poesia beat solo con la svolta elettrica del rock. Il primo Dylan, quello folk, è quello che invece ha influenzato di più il cantautorato italiano classico, con ballate narrative e/o esortative.

Comunque sì, l’idea di applicare alla musica la scrittura automatica, di farsi guidare dal flusso di coscienza e dalle associazioni libere mi ha sempre affascinato, e devo dire che con me ha pure molto spesso funzionato. Ora sono entrato in una fase più sobria e sto sperimentando metodi di scrittura più disciplinati, ma per la beat generation anche l’estasi alcolica e psichedelica non erano un fatto nichilista, avevano una valenza “spirituale” come hai detto bene tu.

E ora il tasto commerciale. Perché in fondo il taglio delle tue forme-canzoni strizza fortemente l’occhio al pop, dai suoni alle strutture. Come ti confronti con queste dimensioni e a quale bisogno risponde la voglia di andare in questa direzione?

Credo che un artista, e soprattutto un musicista, non debba mai temere la leggerezza: più il bagaglio è leggero più il viaggio è agile. Oggi la definizione di “musica leggera” è caduta in disuso anche perché era considerata denigratoria, ma in realtà tutti ci rientravano: cantautori come Serge Gainsbourg o band come i Rolling Stones erano etichettati come “pop” per la loro epoca. Se quello è il pop magari avercene, e saperlo fare.

C’è una cosa che si rende necessaria sottolineare dopo aver impattato contro il tuo disco ed è il potere critico. Io trovo che questo lavoro abbia un impatto sociale molto forte (un punto su cui tornerò a breve). La vera denuncia che vive nel sottotesto di queste canzoni è l’assenza e l’annientamento di personalità di ognuno di noi? Trovi che sia corretta come lettura?

Il tema dell’alienazione era sentito molto forte negli anni ’60, che poi sono quelli a cui maggiormente si rifà il mio sound, solo che allora si rispondeva contrapponendo una condivisione orizzontale di tutto, dalla musica al sesso alla politica: se leggi i testi delle canzoni dell’epoca quasi tutte parlavano al plurale usando il pronome “noi”. Oggi invece viviamo in un tempo di individualismo forsennato dove a mancare è l’empatia, il senso dell’alterità. Le mie canzoni quindi sono per forza scritte in prima persona singolare e paradossalmente è questo l’elemento che le rende moderne: posso solo dire “io”, non potrei mai cantare “noi”, a chi dovrei riferirmi, a nome di chi potrei farlo? Non è un caso che l’unica eccezione sia l’ultima traccia del disco intitolata “Io, io, io e gli altri” dove canto “stiamo tutti quanti fingendo / di saper stare al mondo / vogliamo gli amori e gli amari / però costano cari / convenzione sottintesa / senza alcuna offesa / cosa ci sarà mai oltre / io, io io e gli altri”.

E quindi riprendo il filo e ti chiedo: non pensi che tu sia stato troppo “ermetico” nel lanciare messaggi che forse avrebbero meritato una più plateale celebrazione?

No, perché leggerezza non vuol dire banalità: lo so, ho appena detto che più il bagaglio è leggero più il viaggio è agile, però se nel tuo zaino vuoi trasportare gioielli di contrabbando è necessario nasconderli per bene in un doppio fondo e quando si passa la dogana bisogna muoversi con disinvoltura, come se non pesassero nulla.

“Demolire” o “dissacrare” (le virgolette sono importanti) miti come De André è una direzione decisamente anti-popolare. Poi vaglielo a far capire che il messaggio era altro… come reagisci alle persone che ormai come pecore si fermano solo alla superficie delle cose?

Quando un cantautore esordisce dicendo “Sono un poeta come De André” deve essere preparato all’idea che verrà sommerso da una montagna di merda. Però devo anche dire che in media per ogni due/tre persone che mi scrivono “ma chi ti credi di essere?” ne spunta fuori una che mi dice “sei un genio!”: direi che conoscendo gli italiani i conti tornano. Io comunque non rispondo mai nulla, semplicemente perché le canzoni non dovrebbero mai essere spiegate: è come con le barzellette, se ti trovi nella condizione di doverla spiegare vuol dire che ormai l’hai bruciata.

Il vinile… sembra che molte direzioni abbiano ripreso la via del passato. Che cosa significa per te? Anche qui scatta in automatico il concetto di marketing, visto che ormai si vendono più vinili che altro… e non ci si deve vergognare di dirlo…

Oggi il consumismo non è più “usa e getta” ma “usa” e basta, perché nell’era dei cataloghi multimediali i file non hanno nemmeno bisogno di essere eliminati: ovvio quindi che molti sentano la necessità di riscoprire il contatto fisico con gli oggetti, perché risponde a un bisogno di autenticità. Quando ciò che a te è sempre piaciuto torna ad essere sdoganato e di moda è un’arma a doppio taglio: perché da un lato diventa più facile ottenerlo, dall’altro rischi di confonderti nel mucchio. Su questo credo di avere una specie di potere profetico, per esempio da adolescente facevo fatica a trovare pantaloni a zampa d’elefante invece poi sono tornati. Il problema è che quando chiedi a un venditore qualcosa che non ha in negozio non ti dice mai “non ce l’ho, dovresti cercare da qualcun altro” ti dicono sempre “ormai non lo fanno più”: ma non è vero.

Domanda piccante: con questo taglio di voce molto cinematografico, a due passi dall’autoironia, come vivi il muro di persone che troverebbero comico anziché serioso il tuo canto?

Se è per questo c’è gente a cui viene da ridere ancor prima che io apra bocca, solo per come mi vesto. Sono sempre stato un “soggetto”, mi hanno sempre gridato “frocio” per strada e anche quando si trattengono ormai capisco al volo se lo stanno pensando. Ci sono abituato e per fortuna sono, appunto, abbastanza auto-ironico: perfino un brano come “Dandy di città” è una canzone preventiva, un autoritratto che mischia realismo e caricatura.

A chiudere: se un Sanremo celebra “artisti” come Achille Lauro, un cantautore di fino che cerca il messaggio in una dimensione lontanissima dal pop commerciale (anche e soprattutto parlando del linguaggio utilizzato), cosa risponde?

Ma il successo di Achille Lauro non mi toglie nulla, proprio perché non siamo in concorrenza. Non mi danno fastidio i quindicenni che ascoltano la trap, il problema casomai sono i trentenni che ascoltano i cantautori indie, la musica che dovrebbe essere alternativa ma che non lo è affatto.

Sanremo non ha mai premiato i cantautori di culto, guarda che fine ha fatto il povero Tenco. Il punto è che se oggi ci fosse un nuovo Luigi Tenco finirebbe per spararsi proprio al Premio Tenco. Con questo non sto parlando di me, se non altro perché credo che non servirebbe a nulla. 

Pensa che addirittura i videoclip di “Rolls-Royce” di Achille Lauro e della mia “Come De André” hanno la stessa carta da parati sullo sfondo: con la differenza che la sua è una scenografia e la mia è la vera casa in cui abito. È strano accorgersi che certe cose che si hanno in comune non garantiscano nulla, che non significhino davvero un cazzo: ma del resto con chi è che ho qualcosa in comune io?


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