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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
28/08/2023
Ian Carr
Belladonna
Bastano le prime note della title track per finire irretiti dal magico mondo del trombettista e bandleader britannico Ian Carr e l’incanto non si ferma, anzi aumenta nella meravigliosa "Summer Rain", e mai si spegne nelle altre quattro tracce a seguire. A più di cinquant’anni dalla sua uscita, "Belladonna" rimane un riferimento per chi adora quel concetto di musica ibrida che incorpora jazz, fusion e rock, con la chicca della presenza del leggendario Allan Holdsworth alla chitarra.

Probabilmente sconosciuto ai più, Ian Carr presenta credenziali molto forti e documentate: dal 1963 al 1969 fa parte di un quintetto con Don Rendell che per tre anni si aggiudica il primo posto nel Melody Maker jazz poll. È anche raffinato compositore, musicista e frontman, giornalista e brillante autore di saggi sul jazz e di biografie di artisti di tal genere.

Il trombettista scozzese di Dumfries diventa celebre inoltre nel 1969 alla guida dei Nucleus, poderoso ensemble di progressive rock, jazz fusion e funk psichedelico in fervente attività per due decenni, nonostante repentini scioglimenti e successivi ricongiungimenti con cambi di formazione. Tuttavia è nel progetto solista del 1972, Belladonna, a toccare l’apice, aiutato da uno stuolo di sidemenincredibili. I Nucleus originali si prendono così la prima pausa: il polistrumentista Karl Jenkins e il batterista John Marshall si uniscono ai Soft Machine, il bassista Jeff Clyne si avventura con gli Isotope e Chris Spedding si dedica alle session, molto più redditizie in termini di paga.

E a proposito di soldi, Carr deve sopravvivere a serie difficoltà economiche per il debutto a suo nome; recluta non senza difficoltà il talentuoso pianista Dave MacRae, il geniale Gordon Beck al Wurlitzer e una vera forza della natura, il percussionista Trevor Tomkins, il quale ben si integra con il re dei tamburi Clive Thacker. Le sorprese non sono finite: al basso giunge una vecchia conoscenza proprio dei Soft Machine, Roy Babbington, e, grazie a questo disco, si fa conoscere alle masse il futuro guitar hero Allan Holdsworth.  Infine, ultimo, ma non per importanza, vi è pure Brian Smith, suonatore di flauti e fiati, unico membro dei Nucleus rimasto, oltre ovviamente a Carr.

 

Il collegamento sonoro con il gruppo appena abbandonato è evidente, anche se le precedenti uscite, da Elastic Rock a Solar Plexus sembrano più gioire delle tensioni esistenti tra l'improvvisazione jazzistica e le dinamiche energiche del rock, mentre Belladonna, in realtà, le integra pienamente. Sebbene l'ispirazione includa senza dubbio il seminale In a Silent Way di Miles Davis, le composizioni presenti impiegano deliberatamente formule armoniche jazz più accessibili e convenzionali e un tempo circolare, nonostante le sue astrazioni. Si odono influenze classiche, bebop tradizionali e suggestioni pop, come se Stravinsky, Thelonius Monk, Howard McGhee e Maynard Ferguson avessero incontrato i Beatles e gli Who. Si percepisce la volontà di abbattere barriere e l’ascolto non ne risente, anzi ne viene stimolato, quasi ci si commuove ad ascoltare raffiche di trombe, flicorni e sax, riff aggressivi di chitarra, turbinii di percussioni e tastiere seguiti da momenti quieti e atmosfere eteree create dagli stessi identici strumenti.

Così ecco la meravigliosa opener, nonché title song, della durata di oltre 13 minuti, colma di dissonanze nebulose architettate con maestria per merito delle percussioni e carica di toni sinistri evocati da un Wurlitzer e da un Fender Rhodes nell'introduzione. La tromba in sordina di Carr ci conduce a un tema modale orientale di tipo call-and-response. All'inizio i componenti della band controbattono in modo scarno e ambiguo, finché la linea di basso di Babbington non riprende il soggetto sonoro e guida in un terreno funky. Holdsworth “gioca” con i pedali wah-wah, mentre le svisate contrastanti di Beck e MacRae offrono un interplay stellare. Carr e Smith si scambiano assoli raffinati e anche la ritmica di Holdsworth è estremamente inventiva.

 

"Summer Rain", al contrario, è rilassata, ricorda il piacevole dormiveglia dopo pranzo in una giornata di festa. La tastiera di MacRae riecheggia il suono delle gocce che colpiscono le finestre, la sezione ritmica non perde un battito, i fiati sono in tandem sincopati, e intanto Holdsworth offre fraseggi tra il blues e la psichedelia nascondendosi dietro il piano elettrico.  Sembra di essere catapultati in una colonna sonora senza tempo, con un mood malinconico e un approccio funk ancor oggi utilizzato nelle produzioni hip hop più raffinate.

In "Remadione" si assaporano invece diversi cambi di tempo e architetture sonore, frutto dell’affinità elettiva creatasi nell’ensemble e della sapiente produzione di Jon Hiseman, uno dei migliori percussionisti al mondo legato indissolubilmente ai Colosseum. Sebbene il brano inizi con il flauto e la tromba che ondeggiano con garbo, un Rhodes che tintinna e piatti picchiettati, entra nel vivo con un groove funky e un rullante breakbeat, grazie a un Holdsworth inizialmente sornione e poi bravo a incidere con linee blues arpeggiate e distorte. Beck e Tomkins sono fenomenali a rispondere con empatia, tanto da spronarlo a continuare.

 

«Desidero attingere sempre di più dai compositori classici moderni. Ora voglio sentire Bartok. In passato ho ascoltato solo pezzi casuali, ma adesso gradirei approfondire meglio. Mi piace Gil Evans e sono innamorato di Stravinsky. Ho appena letto la partitura di "The Rite of Spring" e ho scoperto che usa un accordo molto blues che noi utilizziamo molto. Ma non potrei mai fare a meno delle pulsazioni ostinate del basso. Voglio sempre, a un certo punto, che siano presenti, e costituiscano le viscere ritmiche della musica. Ci vuole un'immaginazione incredibile per pensare a un riff davvero buono, originale e vitale che sia solo un frammento melodico e cadenzato. Ma è molto difficile trovarne uno valido senza farlo suonare banale, sdolcinato o troppo pretenzioso».

Queste dichiarazioni tratte da un’intervista fatta a Carr dal Jazz Journal nel 1973 sembrano davvero calzare a pennello per descrivere "Mayday". Il pezzo offre un'astrazione momentanea nella sua introduzione, mentre il trombettista e Smith costruiscono a suon di note un accompagnamento incisivo con il supporto “espressionista” di tastiere, batteria, percussioni e chitarra, tuttavia sono i giri di basso a consentire di tenere i piedi per terra, a lasciar fluttuare le armonie impedendo che volino via e si perda il contatto con la melodia. Un ruolo importante lo svolgono sempre i fiati, che si scontrano grintosi, senza far prigionieri con il wah-wah di Holdsworth, chiaramente reminiscente di "Shaft", capolavoro indimenticabile di Isaac Hayes.

Brian Smith e il suo flauto di bambù, insieme all’Hohner electric piano del compare Gordon Beck, caratterizzano l’intro dell’ammaliante "Suspension", pilotata nel prosieguo dalla tromba apocalittica di Ian Carr, e senza nemmeno accorgersi si giunge già alla conclusiva, visionaria "Hector’s House". È sicuramente un brano ricco di suggestioni, ricorda alcuni lavori dell’epoca di Herbie Hancock e nasce da un fraseggio ideato al sax soprano da Smith, unico del gruppo a mettere a disposizione la sua capacità compositiva e a competere con l’estro di Carr, qui eccezionale al flicorno. Notevole anche il solo incendiario di Alan Holdsworth, a metà strada tra jazz, prog e psych rock a chiudere un album che non scende a compromessi né in termini di qualità né di immaginazione creativa.

 

In quel lontano Luglio 1972 nei Phonogram Studios di Londra si è davvero concepito un disco indimenticabile, ove si sono assorbiti i vari stili del jazz e dei generi affini creando una tessitura sonora unica, libera, ma al contempo rispettosa di alcune regole, come spiegato magistralmente da Ian Carr, uno dei pochi artisti ad aver messo nella sua tromba anche una filosofia di vita, con l’accettazione dei propri limiti…

“Non una libertà totale, dove non c'è nemmeno una radice, ma una nota e su di essa abbiamo una scelta armonica completa. Ci interessa la costruzione della tensione e il suo rilascio. In molto jazz d'avanguardia trovo un'enorme tensione, ma mai un vero rilascio. Quando ho finito con il vecchio quintetto (quello con Don Rendell ndr), una delle cose che ho deciso è che non avrei mai più suonato quel tipo di free jazz per un'intera serata. Come parte di qualcos'altro è fantastico, ma è solo un aspetto dell'intero linguaggio musicale. A me piace usare l'intero linguaggio, che comprende anche il ritmo, le armonie e tutto il resto”.