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THE BOOKSTORECARTA CANTA
Benedizione
Kent Haruf
2015  (NN Editore)
LIBRI E ALTRE STORIE
all THE BOOKSTORE
12/06/2023
Kent Haruf
Benedizione
Siamo a Holt, in Colorado, una piccola cittadina di provincia, che nella realtà non esiste, ma nell’immaginario di Haruf e di tutti i suoi lettori, sì. Un luogo che diventa quasi un protagonista, assieme a tutti i personaggi che vi ruotano attorno, che nel caso di "Benedizione" sono la famiglia Lewis e i loro rapporti conflittuali. Una storia che apre a tantissime riflessioni e che ci fa sentire nudi e impotenti dinnanzi alla vita e ai suoi imprevisti.

 “C’erano stoppie di frumento che brillavano al sole e file di granoturco molto verdi alte fino alla cintola, e poi pascoli punteggiati di mucche nere nell’erba selvatica, e artemisia e yucca, e a un certo punto Dad disse, Rallenta. Gira qui, per favore”.

 

Siamo a Holt, in Colorado, una piccola cittadina di provincia, che nella realtà non esiste, ma nell’immaginario di Haruf e di tutti i suoi lettori, sì. Infatti, è proprio questo luogo a fare da sfondo a molte delle storie raccontate da questo grandissimo autore americano, morto prematuramente nel 2014, a soli 71 anni, a causa di una malattia polmonare.

Holt, in realtà, è molto più di uno “sfondo”, perché Haruf, romanzo dopo romanzo, ce lo descrive con un’intensità tale da renderlo un vero protagonista, insieme a tutti i suoi personaggi. Anzi, Holt è parte dei suoi personaggi, perché è casa, senso di appartenenza, mentalità, abitudini… Holt, per alcuni è un luogo in cui restare, per altri, un luogo in cui ritornare e per altri ancora, invece, è un luogo da cui fuggire e sfuggire, perché le comunità molto piccole possono trasformarsi con estrema facilità in una gabbia di giudizi e pregiudizi.

 

Con Benedizione, ci troviamo dinnanzi a un romanzo che potremmo definire “lento”, ma non in senso negativo, tutt’altro. Perché il modo in cui il tempo viene gestito nella narrazione, è un vero e proprio elogio della lentezza e dell’introspezione. Non ci sono colpi di scena o suspense, perché qui è il racconto del “normale” e del quotidiano a prendere il sopravvento.

È estate, il caldo è asfissiante e le giornate sono dilatate a un punto tale da sembrare infinite. Dad è malato, davanti a sé ha gli ultimi giorni che gli restano, quelli che hanno il sapore della resa dei conti e che fanno da spartiacque tra la vita e la morte. Giorni emotivamente impegnativi, perché pregni di tante, troppe riflessioni, assai simili a quei famosi bilanci che siamo soliti fare a fine anno, ma che in questo caso, riguardano una vita intera, con la consapevolezza che ormai, ciò che è fatto, è fatto. Perché non c’è più tempo per rimediare agli errori commessi o per cambiare rotta.

Per Dad, quelli che precedono la sua dipartita, sono i primi veri giorni di riposo (forzato), perché se il suo corpo glielo consentisse ancora, pur sapendo di dover morire, probabilmente, continuerebbe a fare ciò che ha sempre fatto: lavorare nel suo negozio di ferramenta. Quel negozio che era riuscito a rilevare e a far suo, a soli 22 anni. Il lavoro è sempre stato il suo centro, la sua sicurezza, il suo scopo. Garantire una posizione agiata alla sua famiglia era l’unico modo che conosceva per far capire loro quanto li amasse. Un uomo d’altri tempi, per certi versi duro, chiuso nelle sue convinzioni, ma indubbiamente onesto e generoso.

 

Ora, sopraffatto dai rimpianti, dal dolore e dai fantasmi del passato, è consapevole di aver sacrificato ciò che più conta nella vita, vale a dire i rapporti umani, gli affetti, e nel suo caso, il rapporto con i suoi due figli, ormai adulti, Frank e Lorraine: “Volevo toccare ancora una volta il viso morbido di una bambina. Quando ero piccola, toccavi in quel modo anche il mio? Lui la fissò a lungo. Non penso. Perché no? Avevo troppo da fare. Non ero attento. No, disse lei. Non lo eri. […] Perdonami, sussurrò lui. Ho sbagliato un sacco di cose. Avrei potuto fare meglio. Ti ho sempre voluto bene.”

Dad, nei suoi ultimi giorni, accudito e coccolato da sua moglie Mary e dalla figlia Lorraine, ripercorre la sua vita, e lo fa con grandissima dignità, in modo composto e rassegnato a quello che è il volere di qualcuno, o qualcosa, molto più grandi di lui.

 

Pagina dopo pagina, impareremo a conoscere la famiglia Lewis, Dad, Mary, Frank e Lorraine, i loro rapporti conflittuali, le maledizioni, i dolori e le speranze. Il loro amore reciproco, nonostante le incomprensioni e le assenze che pesano, come quella del figlio Frank, che non si è mai sentito visto e accettato da Dad.

Un’intera comunità che, nel momento del bisogno, si stringe attorno alla famiglia Lewis e che fa sentire la propria vicinanza e la propria partecipazione a un dolore che non si è mai pronti ad affrontare, come quello di dover perdere qualcuno che si ama. L’unico rimedio, per sentire un po’ meno male, è starsi accanto il più possibile. Donarsi affetto, cure e attenzioni.

Sapere di avere i giorni contati è estenuante, sia per chi è destinato ad andar via e sia per chi rimane e sarà costretto a portare sulle proprie spalle il fardello dell’assenza. Dad è lucido, sembra aver pensato a tutto, a ogni singolo dettaglio del dopo. Vuole essere certo che tutti quelli che ama e che sono stati importanti nella sua vita, abbiano ciò che meritano, ciò che è giusto. È l’unico modo che conosce per tentare di lenire il suo senso di colpa derivante dalla consapevolezza che, suo malgrado, non potrà più continuare a prendersi cura della sua famiglia. Di quella famiglia a cui, perlomeno da un punto di vista materiale, ha sempre cercato di non far mancare nulla.

Il presente della famiglia Lewis si intreccia con quello di altri personaggi, che sembrano avere, solo in apparenza, un ruolo marginale, ma in realtà, tutte le storie che si incastrano tra loro sono funzionali alla narrazione e servono a descrivere meglio la natura umana e a tracciare connessioni profonde tra i vari protagonisti e il lettore stesso. Connessioni che scaturiscono da vissuti o esperienze simili. O da quel senso di affinità che, in alcuni casi, affiora spontaneamente, quando ci si sente particolarmente vicini a qualcuno, per ragioni che non si è in grado di spiegare in modo razionale. 

 

Benedizione è una storia che apre a tantissime riflessioni, e che ci fa sentire nudi e impotenti dinnanzi alla vita e ai suoi imprevisti. Allo stesso tempo, però, apre alla speranza, perché è proprio attraverso il dolore e la perdita che riusciamo a guardare il nostro presente e noi stessi con occhi più benevoli e indulgenti.

Abbiamo sempre qualcosa da rimproverarci, viviamo sempre con l’impressione di non prendere abbastanza, di non dare abbastanza, di non essere noi stessi abbastanza, perdendo di vista che siamo esseri umani, e come tali, finiti e fallibili.

Haruf, invece, attraverso il suo linguaggio asciutto e i dialoghi ridotti all’essenziale, ci insegna che la vita può essere molto più semplice di quel che sembra. Che il perdono e l’amore possono tutto, e che il rimpianto, il dolore, il rimorso e, in alcuni casi la malattia, fanno parte della vita. Che non esistono vite straordinarie e vite ordinarie, perché ciascuna vita è unica e speciale a modo suo.

“Era una notte d’agosto. Dad era morto quel mattino e Alice, la ragazzina della porta accanto, si era persa quella stessa sera. Poi, guidata dalle luci della cittadina, aveva ritrovato la strada di casa ed era tornata dalle persone che la amavano.”

 

 

Nota: Benedizione fa parte della Trilogia della Pianura, a cui si aggiungono Canto della pianura e Crepuscolo. Ci sono sempre grandi discussioni in merito all’ordine con cui questi romanzi andrebbero letti, in quanto Benedizione, in America, è stato pubblicato per ultimo, mentre qui in Italia, per primo. La successione proposta da NN Editore prevede Benedizione, Canto della pianura e Crepuscolo.