Andrea Segre, pur avendo già messo a segno diverse incursioni nel lungometraggio di finzione (Io sono Li del 2011, La prima neve del 2013, L’ordine delle cose del 2017) si è formato ed è conosciuto più che altro come documentarista.
Per raccontare questo breve periodo della vita di Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano dal 1972 sino alla sua morte, Segre decide di adottare una forma ibrida, un racconto di finzione corredato da molte immagini di repertorio che non svolgono la funzione di mero orpello narrativo, del tocco d’epoca, sono reperti da leggere come un vero e proprio elemento atto a cadenzare i momenti della narrazione, a sottolineare il passaggio storico denso, a dimostrare quella che era una partecipazione diffusa, sentita e sincera di masse di cittadini, di lavoratori, di semplici uomini e donne che ancora credevano, che pensavano una politica più giusta e attenta alla dignità e al benessere delle classi proletarie fosse ancora possibile.
Nell’ottica di realizzare un film a soggetto, cosa mai affrontata prima per la figura di Berlinguer, il regista veneto sceglie uno dei volti più riconoscibili del cinema italiano, un Elio Germano di indubitabile bravura e capace, senza voler mai aderire a una mimesi totale, di far riemergere nei ricordi di chi l’ha vissuto, il portamento, i gesti, l’indole di uno dei politici più ricordati e amati del suo periodo storico.
Ne La grande ambizione Segre esplora gli anni che vanno dal 1973 al 1978 con una rapidissima coda a chiudere fino ad arrivare ai partecipati funerali di Berlinguer, scomparso nel 1984 a causa di un malore (ictus) che lo colse durante uno dei suoi comizi in quel di Padova.
La grande ambizione si apre con il viaggio di Berlinguer (Elio Germano) a Sofia per incontrare i vertici del Partito Comunista bulgaro, un viaggio che terminerà per il Segretario del PCI con un attentato per fortuna senza gravi conseguenze.
Siamo nel 1973, la Guerra Fredda è ancora ben radicata nell’opposizione tra blocco sovietico e blocco occidentale, le varie rappresentanze del Partito Comunista dei diversi Paesi parlano tra loro, si confrontano: in Russia però le posizioni molto democratiche di un politico seppur capace e appassionato come Enrico Berlinguer non piacciono troppo. Il Segretario è infatti un uomo retto che ha come primo interesse il benessere della base del partito, della gente, degli elettori, è un uomo a cui ancora stanno a cuore la giustizia sociale, la dignità del lavoro e quella delle persone, è un politico che sta tra la gente, con gli operai, con le donne, con le riforme e la difesa dei diritti acquisiti (emblematica la questione sul divorzio).
Berlinguer è anche un padre amorevole, attento agli insegnamenti da passare ai suoi figli, ai giusti principi, alla coerenza. È anche un realista, un politico che ha capito che il PCI, seppur in costante ascesa, un governo da solo non lo può reggere, da qui la ferma convinzione di dover collaborare con il “nemico”, con quella Democrazia Cristiana di Moro (Roberto Citran) e Andreotti (Paolo Pierobon) che sembra andare da tutt’altra parte, almeno nella sua incarnazione più “andreottiana”.
Prende corpo l’idea del Compromesso Storico, un’iniziativa che se avesse visto i suoi frutti avrebbe potuto anche (questo non lo sappiamo) cambiare il nostro Paese. Ma il rapimento prima e l’esecuzione poi di Aldo Moro, primo interlocutore di Berlinguer, segnarono la fine di ogni speranza per il Compromesso Storico e per quell’idea di una giustizia condivisa tra più forze politiche a favore finalmente dell’elettorato, della gente comune, del “popolo”.
Berlinguer – La grande ambizione è un film che mette in scena non solo la figura del Berlinguer politico e uomo, ma soprattutto una stagione in cui la politica era ancora pregna di ideali, di lotte, di speranze, una politica tra le ultime ad aver veramente coinvolto la gente alla cosa pubblica.
A emergere dalle immagini di repertorio è un forte sentimento di partecipazione capace di commuovere chi ne serba ricordo ma anche lo spettatore più giovane che per meri motivi anagrafici non ha potuto vivere sulla propria pelle quella che è stata una vera e propria passione civica diffusa e oggi purtroppo in larga parte andata perduta. Nel film, la figura di Berlinguer diventa il simbolo di un’epoca in cui la politica non era solo viatico di interessi “ad personam”, ma un progetto di comunità, una possibilità di cambiamento reale.
Uno degli aspetti più toccanti che il film riesce a cogliere è proprio il dramma della fine di quel sogno, un sogno naufragato nel sangue degli attentati e deturpato da una spinta capitalista sempre più forte della quale ancora non siamo riusciti a liberarci. Prezioso il contributo al ritmo e ai significati del film da parte del montatore Jacopo Quadri, giustamente premiato per l’incedere ottimamente dosato tra finzione e archivio che è riuscito a dare all’opera.
Ne esce un film in cerca di un suo equilibrio (che trova), un po’ come si cercava di fare nel Paese con quel “compromesso storico” che, se le cose fossero andate diversamente, chissà a cosa ci avrebbe portato.