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REVIEWSLE RECENSIONI
04/09/2018
Big Red Machine
Big Red Machine
Di questo disco stanno parlando tutti ed è comprensibile, vista la fama dei nomi coinvolti. Il grande interrogativo è più che altro se ne sia valsa la pena o se invece si sia rivelato come un mero esercizio di stile.

È il concetto stesso di “super gruppo” a non essermi mai andato troppo giù, avendolo sempre visto come un modo facile per raggranellare quattrini sfruttando una fama preesistente; oltre che poi, raramente i risultati effettivi corrispondono alle aspettative.

In questo caso però la situazione è differente: Aaron Dessner dei The National e Justin Vernon sono amici da tempo, recentemente hanno avuto modo di curare insieme l’ultima edizione del festival Eaux Claires, in Wisconsin e hanno iniziato a scrivere insieme per partecipare alla compilation “Dark Was the Night”, alla quale hanno regalato il brano “Big Red Machine”, che ha poi dato il nome a questo progetto, pur essendo stato lasciato fuori.

La decisione di realizzare un disco vero e proprio è successiva e ha a che fare con la creazione della piattaforma PEOPLE, che nelle intenzioni degli sviluppatori (tra cui ci sono anche Vernon e Dessner) dovrebbe essere sia un luogo d’incontro tra musicisti, sia un’alternativa a Spotify e ad altri servizi affini. Staremo a vedere come andrà. Nel frattempo, mi pare importante sottolineare come, dopo che i singoli di lancio erano apparsi solo sul canale dedicato, il prodotto intero sia stato poi reso disponibile in tutti i luoghi preposti, Spotify compreso.

Di questo disco stanno parlando tutti ed è comprensibile, vista la fama dei nomi coinvolti. Il grande interrogativo è più che altro se ne sia valsa la pena o se invece si sia rivelato come un mero esercizio di stile.

La verità, come al solito, sta nel mezzo: “Big Red Machine” si esaurisce in fin dei conti in una somma di due cifre stilistiche, quella dei The National e quella di Bon Iver, anche se, diciamolo subito, è quest’ultima a risultare preponderante. Allo stesso tempo però, la qualità delle canzoni è talmente alta da rendere tutt’altro che superfluo un ascolto approfondito.

È stato indubbiamente Justin Vernon, dicevamo, il principale responsabile dello sforzo compositivo e lo si capisce già dalle battute iniziali: “Deep Green”, col suo beat leggero e l’utilizzo del vocoder ci trasporta immediatamente in territori molto simili a quelli di “22, A Million”. Stessa cosa per “Gratitude”, che tra linee vocali spezzate e filtrate e minimali arpeggi Folk, appare come la versione destrutturata di un episodio tratto da “For Emma… Forever Ago”.

Con “Lyla” ci si muove in zona RnB, tenendo Frank Ocean come punto di riferimento ma qua e là compaiono anche quelle chitarre spezzettate che erano un po’ il marchio di fabbrica di “Sleep Well Beast”, ultima fatica dei The National. E il ruolo di Dessner lo si sente anche nella successiva “Air Stryp”, che sembra proprio costruita attorno agli stessi beat che contribuivano a definire l’ultima fatica della band dell’Ohio.

In “OMDB” gli autori si fanno prendere la mano, portando avanti per quasi otto minuti un brano che a conti fatti è costruito su un unico frammento di linea vocale, appoggiata su voci filtrate e un tappeto elettronico piuttosto ruvido. Prima che possa subentrare la noia, però, entra una chitarra acustica, Dessner si lancia nei suoi proverbiali fraseggi e l’atmosfera cambia radicalmente, nonostante la melodia rimanga uguale. Si poteva fare di meglio ma anche questa volta si cade in piedi.

E poi c’è “People Lullaby”, aperta da un giro di piano che gradualmente si riempie di orchestrazioni, atmosfere Neo Soul dove le recenti collaborazioni di Vernon con James Blake sono apertamente chiamate in causa. Le schitarrate che introducono “Melt”, invece, sono la cosa più The National mai sentita in tutto il disco. È forse l’episodio più debole del lotto, che sfrutta la solita formula del cantato spezzato e ripetitivo, gli strati corali, forse un po’ più rumoroso degli altri ma non troppo diverso da quello che avevamo ascoltato finora.

I pezzi da novanta però sono altri: “Hymnostic” vive su un giro di tradizionalissimo Folk americano, con un crescendo corale che trasporta quasi in territorio Spiritual. Un gioco molto simile a quello di “I Won’t Run From It”, già uscita come singolo: un brano essenzialmente acustico, con una tromba che compare a metà; anche questo molto americano, vicino nelle atmosfere a certe cose di Phosphorescent e che ha il fascino agrodolce delle cose senza tempo. E poi “Forest Green”: giro semplice, percussioni a reggere l’ossatura ritmica, è in tutto e per tutto una canzone del primo Bon Iver vestita di elettronica e, pur senza rappresentare nulla di innovativo, abbaglia con la sua bellezza malinconica.

Ecco, probabilmente il segreto di questo disco sta tutto qui. Per quanti strati si possano mettere sopra ad ogni canzone (alcune sono più corali, altre mantengono un carattere più minimalista), alla fin fine sfruttano tutte soluzioni già note, al limite del banale. Eppure, in qualche modo misterioso, se ne rimane catturati, come se nel loro ripetere incessantemente cose che già sappiamo, ci rivelassero anche che le sappiamo così bene proprio perché custodiscono il potere ineluttabile della verità.

Realizzato con il contributo di una valida squadra di musicisti, tra cui ci sono anche il gemello di Aaron, Bryce, l’altro The National Bryan Davendorf e Richard Reed Parry degli Arcade Fire, il debutto dei Big Red Machine è allo stesso tempo scontato e bellissimo. Più indicato ai fan dell’ultimo Bon Iver e a quelli della Folktronica in generale, questo album non mancherà tuttavia di affascinare coloro che vorranno accostarvisi scevri da pregiudizi. Se state cercando la pietra miliare non credo sia il caso di passare da qui; in caso contrario, c’è un lavoro che a fine anno comparirà in molte classifiche, ci scommetto.