L’impatto che i black midi ebbero su di me la prima volta che li vidi al Club to Club, nel 2019, fu notevole. All’epoca era uscito solo il primo disco per cui suonavano ancora estremi e violentissimi, fecero sfoggio di tecnica ma soprattutto trapanarono le orecchie dei presenti con volumi senza senso, oltretutto alle tre del mattino.
Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia da allora: c’è stata una pandemia che ha interrotto ogni attività live, è uscito un nuovo disco che ha incorporato elementi di parziale novità all’interno del loro sound, un altro è stato annunciato a sorpresa ed uscirà a luglio. Come se queste giovani band inglesi (la stessa prolificità è stata dimostrata già da Idles e Fontaines D.C.) avessero fretta di portare elementi a sostegno del loro valore.
La data milanese è la prima da headliner che i nostri tengono nel nostro paese, la prima in assoluto nel capoluogo lombardo. Concerto inizialmente programmato a dicembre, poi rinviato per i soliti motivi, adesso finalmente recuperato, all’interno di un Santeria pieno in ogni ordine di posti, con l’aria condizionata a rendere possibile una permanenza all’interno senza troppo soffrire.
Ad aprire ci sono gli O., un duo londinese composto dalla batterista Tash Keary e dal sassofonista Joe Henwood. Impatto notevole, nonostante siano solo in due, uso discreto di loop ed elettronica ad arricchire una già efficace miscela sonora a metà tra Free Jazz e Afrobeat, niente di troppo sperimentale e sufficientemente orecchiabile da far ballare i già numerosi presenti, tanto che le ovazioni al termine del set saranno decisamente rumorose, molto di più di quelle normalmente tributate ad un gruppo di apertura.
Aveva fatto scalpore quel tweet di Geoff Barrow secondo cui i black midi “riassumono tutto quanto c’è di sbagliato nelle scuole di musica”. L’ex Portishead (oggi attivo soprattutto con l’altro suo progetto Beak>>) non ha mai avuto molti peli sulla lingua, che siano ironiche, sarcastiche o semplicemente divertenti, le sue uscite a mezzo social sono da tempo proverbiali. Si attirò parecchie critiche, da fan e addetti ai lavori, anche perché i londinesi sin dal primo disco sono stati particolarmente coccolati dalla critica e amati dal pubblico.
Ecco, ritorno sull’episodio perché dopo averli visti l’altra sera per la terza volta, sono arrivato alla conclusione che qualcosa di vero, in quel giudizio del buon Geoff, ci fosse.
L’attuale tour europeo del terzetto britannico arriva a un anno da Cavalcade e pochi mesi prima di Hellfire, che uscirà il 15 luglio. Si tratta dunque di un periodo di transizione, che si riflette puntualmente nella setlist proposta, composta per una buona metà di materiale inedito (al momento è stato solo rilasciato un singolo, “Welcome to Hell”, che è stato tra i primi brani eseguiti). Poco male, si potrebbe dire facendo una battuta neanche troppo esagerata, perché tanto, qualunque cosa avessero deciso di suonare, non l’avremmo riconosciuta. Per carità, sul palco sono sorprendenti e a questo giro c’erano pure tutti (al TOdays quest’estate si sono presentati ad organico ridotto), compresi i membri aggiunti Seth Evans (tastiere e Synth) e soprattutto Kaidi Akinnibi, il cui sassofono è stato il punto infuocato dell’intero set, fondamentale a fare da indiavolato contrappunto alle ritmiche feroci di Geordie Greep. La potenza sprigionata è pazzesca, volumi assurdi e assalto frontale senza compromessi, con l’accoppiata del primo disco “953/Speedway” ad aprire e a lanciare in un pogo senza compromessi le prime file di un Santeria completamente imballato.
Che siano musicisti preparatissimi è fuori discussione, il batterista Morgan Simpson (a questo giro curiosamente sistemato a destra del palco, poiché il fondo era occupato dagli amplificatori e, suppongo, non c’era abbastanza spazio per il suo drum kit) è una vera forza della natura e vederlo suonare fa spavento.
Purtroppo (e parlo per me, attenzione, la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori la pensa diversamente) sulla lunga distanza, il loro Math Rock dalle venature apocalittiche non dà mai l’impressione di declinarsi in veri e propri brani, con degli elementi distintivi e facilmente memorizzabili, ma rischia sempre di esaurirsi in uno sfoggio di stile fine a se stesso. Sono sicuro che per questi ragazzi non sia così, ma capisco perfettamente il motivo per cui Geoff Barrow ha detto quel che ha detto.
Sui brani del nuovo album il problema è ancora maggiore perché, non conoscendoli, non abbiamo avuto neanche quei pochi punti di riferimento che le cose già pubblicate ci offrivano. Ad un primo ascolto l’impressione è che ci si muova sullo stesso territorio del precedente, con la furia degli esordi in parte stemperata da momenti più vicini al crooning e l’inserimento di sezioni più rilassate, con un più ampio utilizzo della chitarra acustica e delle linee vocali complessivamente più ragionate (il bassista Cameron Picton mi è sembrato anche più presente del solito dietro al microfono, oltre alla solita sezione in cui lui e Geordie si sono scambiati gli strumenti).
Ad un certo punto dovrebbe essere arrivata anche una strana cover di “Love Story” di Taylor Swift ma, ancora una volta, è stata un’impressione o è stata la realtà? Sul palco il gruppo offre veramente pochi punti di riferimento.
Il finale, con due pezzi forti di “Cavalcade” come “John L” e “Slow” è una delle cose più pregevoli ma non cancella l’impressione che dietro i black midi non ci sia tutta la concretezza che si immaginerebbe ascoltando le lodi entusiaste della critica.
Va da sé, è stato un ottimo concerto e mi sono divertito molto. Il tempo dirà se un gruppo del genere avrà altro da offrire oltre all’impatto deflagrante che hanno dal vivo e alla straordinaria bravura che hanno nei loro strumenti. Se si riuscirà ad andare oltre l’effetto sorpresa, insomma.