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REVIEWSLE RECENSIONI
08/07/2017
The Cubical
Blood Moon
Il quarto album della band Punk/Blues di Liverpool non delude le aspettative.
di Giorgio Cocco

Senza dubbio una delle band più originali emerse, anche se solo a livello di culto sotterraneo, nell’affollatissimo panorama inglese dell’ultimo decennio, i Cubical hanno la caratteristica di eludere ogni comoda definizione, semplificando: radici Blues e Garage/Punk, arricchimenti stilistici che mutano di volta in volta, dal Soul al Funk, dal Country al Rock d’autore. Formatisi a Liverpool sul finire degli anni zero, i Cubical esordiscono nel 2009 con Come Sing These Crippled Tunes poi, tra il 2011 e il 2012, danno alle stampe altri due album, It Ain't Human e Arise Conglomerate: un pugno di album - imperdibili per chi ama la mescolanza dei generi sopra elencati - con canzoni potenti e super-abrasive ma anche capaci di richiamare atmosfere di sapore epico grazie alla maestria nell’imbastire riff memorabili e splendide melodie. Contaminazioni su più versanti quindi per i Cubical e il loro ineffabile frontman, il cantante/chitarrista Dan Wilson, la cui voce scartavetrata (da qualche parte tra Captain Beefheart e Tom Waits) dona riconoscibilità immediata al gruppo.

Blood Moon colma un vuoto produttivo durato ben cinque anni (nel 2015 Wilson ha approfittato della pausa per rilasciare il suo debutto solistico, All Love is Blind) riprendendo il filo del discorso là dove s’era interrotto, il disco infatti si apre senza sorprese, Blues sporchissimo e suggestioni assortite, come d’abitudine. Pensate ad una Murder Ballad di Nick Cave, mettetegli intorno i Calexico di The Black Light, ed ecco All Ain’t Well, pezzo carico di umori sudisti così come chi è solito frequentare il deserto californiano piuttosto che gli attraversamenti pedonali di Abbey Road. Poi parte il singolo, I Believe It When I Love You, una deflagrazione Garage/Funk da perdere la testa, band a pieno regime supportata dai fiati degli specialisti Martin Smith e Simon James (già all’opera con Gorky’s, Super Furry Animals e Coral), micidiale il riff di Alex Gavaghan. Si prosegue con la title track, in cui sembra di ascoltare le paranoie ritmiche che hanno reso grandi i Cake: chitarrine infiacchite dall’arrivo del caldo estivo, refrain appiccicoso, Wilson che dà fondo al suo campionario di asprezze vocali. In I Want Money solo rimandi leggendari, Howlin’ Wolf, Tav Falco, Cramps, l’accolita è chiamata a raccolta nel club più fuorimoda e sudicio della città, ideale palcoscenico anche per presentare la prima ballata in scaletta, In Your Eyes, pezzo dall’andamento indolente (la violoncellista Siofra Ward ci mette del suo) che evoca l’eleganza imperfetta dei Tindersticks del First Album: completi sgualciti, fumo dappertutto e fiumi di bourbon scadente. Siamo a metà disco e i brani ascoltati valgono già l’acquisto, niente di nuovo con i Cubical, chi gli ha frequentati in passato lo sa bene, con loro va sempre così, ogni album equivale ad un greatest hits. La sesta attrazione del disco, Con Man 512, è un numero sixties-revival alla Fleshtones, inclusi i coretti che incoraggiano il battimano di sostegno alla progressione ritmica di Mark Perry (bt) e Craig Bell (bs), seguono il bluesaccio waitsiano In The Darkest Corners e l’altra ballata del disco, Whilst Judas Sleeps: sette minuti dall’incessante crescendo emozionale in cui la voce di Wilson assume caratteristiche quasi umane in un tripudio di archi e finezze armoniche. Infine, il Punk/Blues trascinante di Shipwrecked 737, chiusura full-band col botto, chi non ha ancora visto il fondo della bottiglia può tentare di salire sui tavoli per unirsi alla standing ovation.