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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
16/01/2018
The Cynics
Blue Train Session
I Cynics sono esistiti! Veramente. Gridatelo, ditelo ai vostri amici, ai parenti, prendete un megafono e urlatelo nelle piazze. Nei sintetici anni ottanta i Cynics, anche loro, hanno avuto una possibilità!

Il fatto che non l’abbiano sfruttata non significa nulla.

Provateci voi nel 1986 ad andare in giro con armonica, fuzzbox e Farfisa suonando una versione hard-boiled del più classico garage di metà anni sessanta davanti a platee di ragazzine urlanti per Simon le Bon.

Blue Train Sessions fu registrato nel 1986 e pubblicato solo nel 1989 dalla Get Hip Records. Tutta la discografia dei Cynics è in effetti un’intricata selva di ritardi e incomprensioni che minarono in profondità la potenzialità commerciale di un complesso eccellente e originale, almeno limitatamente agli anni ’80.

Artefici di questo sound grezzo, ruvido e menefreghista sono un cantante e un chitarrista i cui nomi, Kastelic e Kostelich, sembrano più il brand di un autolavaggio di Reno o uno scioglilingua slavo che una coppia di autori. Eppure i loro brani sono i migliori tra i (tantissimi) 17 della scaletta. Il cantante è sempre in bilico tra il più scatenato Gerry Roslie dei Sonics e l’allampanato e un po’ retrò Roy A. Loney dei Flamin' Groovies, un gruppo che di certo ha offerto più di uno spunto ai nostri Cynics. La chitarra di Kostelich  è in accelerazione perenne, divisa tra distorsioni, trucchi e ruvidità post-psichedeliche e più morbidi intrecci clonati dal luminoso jingle-jangle dei primi Byrds. Per fortuna poi c’è Bill Von Hagen, batterista con la faccia da impiegato della motorizzazione, che è il vero perno sonoro del gruppo, con la sua smania downbeat da rendere interessante ogni brano, fingendosi quasi di suonare perennemente su un 45 giri di James Brown. Puramente decorativa è la minimale tastierista Beki Smith, un’apparizione nera tra la Uma Thurman di Pulp Fiction e l’aliena di Plan 9 From Outer Space. E nel 1986 proprio da un altro spazio sembravano uscire i brani di questo album, più scatenato e yankee dei nostalgici colleghi britannici Barracudas, meno ostico e scorbutico dei lavori di intransigenti come i Pussy Galore.

Nascono allora pezzi  come “Blue Train Station”, un rock ‘n’ roll anni ’50 come facevano i Blasters e soprattutto la coppia killer “Waste of Time — No Friend of Mine”, con strofe zeppe di sillabe come piace a Jack White e tutto un vocabolario di schitarrate virulente e distorte in stile 1966: un vero saggio di elementare alchimia ritmica su azzeccatissimi riff riciclati un po’ da ogni parte tra Stones, Kinks e Standells.  Ma c’è spazio anche per una malefica tirata come “No Way”, un brano che potrebbe stare su Safe as Milk, e per la lunga jam “Blues in D” abbellita da una sottile coloritura di slide che sarebbe tanto piaciuta a Brian Jones. E poi “On the Run”, un surf aggressivo come i Ventures di “Where the Action Is!”, e la notevole ballatona alternativa “Get Away Girl” con echi della west-coast più malinconica. Sulla stessa corda è anche “Lying All the Time”, brano ahimè talmente melenso che neanche il drumming asimmetrico del buon Von Hagen riesce a salvare. Per fortuna  c’è l’allucinante ululato licantropo di Michael Kastelic che apre “Love Me Then Go Away”, un B-Movie di fine anni ’50, sfacciatamente ispirato a Teenage Head, ma che piacerebbe assai ad un Jon Spencer qualunque. Poi la scatenata “Hold Me Right” e il subdolo riff sotterraneo in “Soul Searchin'” che sfocia inaspettatamente in un chorus assai accattivante. Visto poi l’assolo in “Why You Left Me” sembra facile rispondere alla domanda retorica del titolo, ma le maracas e i ritmi hambone alla Bo Diddley di “I Got Nightmares” riportano il tutto su binari di istantaneo godimento garage, mortificato per un attimo dalla dolciastra “I Can't Get Away from You”, ma ritornato subito in auge con l’assolo più lineare e pulito del disco, quello di “I Want Love”, pezzo retto su un riff talmente elementare, già sentito, già suonato, già ballato tante di quelle volte che sembra impossibile ci si possa ancora cavare fuori qualcosa. Chiude uno dei cavalli di battaglia del gruppo, “Road Block”, sette minuti di scorribanda autostradale al contrario in cui l’oggetto di tanta furia chitarristica non è il motore, non è la strada, la macchina o l’ heavy metal thunder  ma il blocco stradale. Ipercinetica intrappolata. Non male, anche perché la velocità del gruppo si fa vertiginosa, tanto da sfiorare un blues-hardcore a cui solo i Gun Club potevano aspirare.

Ebbene sì, meditate che tutto ciò è successo, è stato suonato, inciso e (scarsamente) distribuito negli anni Ottanta. Quelli dei Duran Duran e degli Spandau Ballet (o di Sandy Marton e Den Harrow, se proprio volete infierire…)

Gridatelo in giro, ditelo ai vostri amici. Se c’è stato in quegli anni un posto per questi scalcagnati, antiquati, grezzi e rumorosi Cynics significa che nel multiforme mondo della Musica c’è posto per ognuno di noi!