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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
15/01/2024
Gary Moore
Blues Alive
Il trascinante tour del 1992 sciorina un Gary Moore in gran spolvero, lasciando presagire il suo desiderio di un ritorno alle origini. “Blues Alive”, pubblicato l’anno successivo, è il giusto compendio di quelle magiche serate, tra incantevoli e toccanti ballate che aprono il cuore, e feroci, selvaggi assalti chitarristici.

Il successo, ma soprattutto la bellezza di Still Got the Blues e After Hours inquadrano la svolta blues di Gary Moore: il geniale guitar hero dopo sette album solisti di chiaro stampo “heavy rock”, nei primi anni Novanta ritorna alla dolce passione dei vecchi tempi, a quella folgorazione che era solo calata di intensità, ma mai aveva abbandonato nel proprio excursus musicale.

Blues Alive ne è la vivace conseguenza, con la ripresa dei più significativi brani in dodici battute e un occhio di riguardo alle recenti composizioni dei due dischi recentemente pubblicati. Ben dieci delle tredici tracce giungono infatti dai lavori sopracitati, tuttavia nulla risulta ridondante, in una perfetta miscela tra pezzi autografi e incendiarie cover di standard del genere.

 

Il 1992 si rivela per Gary molto intenso, totalmente vissuto in giro per il mondo, con tappe memorabili a Parigi e Londra in Europa e a Los Angeles oltre oceano; da queste date scaturisce il campione d’incassi Blues Alive. Proprio quell’anno, in un'intervista al magazine Guitarist, Moore ammette retrospettivamente che durante il tour di After The War del 1989 aveva fatto il doppio gioco con l'heavy rock: "Mi sentivo come se non fossi più me stesso, come se stessi andando per tentativi. Quando ero nel camerino prima dello spettacolo, suonavo solo vecchie cose blues, e mi divertivo più di quel concerto!".

Sempre in quel periodo il funambolo di Belfast rimane sconvolto dalla bellezza di See the Light, brillante opera del revisionista della musica del diavolo Jeff Healey, e cita il chitarrista come fonte ispiratrice per il suo nuovo corso. Moore condivide con il giovane talento canadese l’idea di un ritorno alle radici del blues, declinato, però, in chiave moderna, con potenza, virtuosismi e tecnica. L’opener degli show e del disco in analisi incarna in maniera azzeccata tale desiderio: “Cold Day in Hell” presenta una raffica di abili schitarrate tonitruanti, sensuali ed espressive, seguite dall’energia di “Walking by Myself” un classico dell’amato Jimmy Rogers, una delle figure chiave della scena di Chicago negli anni Cinquanta.

 

Le splendide esecuzioni dal vivo di brani autografi del calibro di “Story of the Blues”, “Separate Ways” e “Still Got the Blues” (uno dei suoi insindacabili capolavori) sono inframmezzati dalle entusiasmanti riletture di “Oh Pretty Woman”, rinvigorita dai cori delle bravissime Carol Thompson e Candy MacKenzie e del vecchio cavallo di battaglia di Johnny “Guitar” Watson “Too Tired”, ove sale sul palco un devastante Albert Collins. Il “chitarrismo” selvaggio di "Mr. Iceman", celebre per l’utilizzo delle dita invece del plettro e di un “Capo” per gli assoli, forgia la proteiforme fluidità del blues ed eserciterà a lungo andare una forte influenza per Moore.

“Since I Met You Baby” surclassa la recente incisione in studio e spalanca la porta agli standard “The Sky Is Crying” e “Further On Up the Road”, ove si apprezza appieno l’impeccabile sezione ritmica, macchina irrefrenabile con il motore ben oliato e dal chilometraggio illimitato, pilotata dai virtuosi Andy Pile al basso e Graham Walker alla batteria. "King of the Blues" è invece impregnata fino al midollo di quel sound caratteristico della Stax, con le tastiere di Tommy Eyre e una sezione fiati, i Midnight Horns, (Martin Drover, Nick Pentelow, Frank Mead e Nick Payn) da urlo. Nella canzone viene citato Albert King (l’intero lavoro è dedicato a lui), musa ispiratrice della nuova avventura, della sterzata rivelatasi vitale verso il blues.

 

L’avvento dell’iconica “Parisienne Walkways” annuncia il raggiungimento della parte conclusiva del concerto. La canzone rappresenta il momento culminante delle esibizioni ed è immortalata in numerose registrazioni dal vivo. In Blues Alive è di una bellezza indescrivibile e viene non a caso scelta come singolo per il lancio dell’album: Gary Moore si esibisce in assoli lamentosi, intrisi di blues e colpisce per il suo canto sofferto, quasi sussurrato, in quella che originariamente era stata concepita come una ballata strumentale.

“Jumping at Shadows” è la toccante chiusura e si ricollega alla sua costante passione per Peter Green, a cui dedicherà il successivo Blues for Greeny nel 1995, dopo la parentesi di un anno prima di Around Next Dream con i BBM. Scritta da Duster Bennett, musicista britannico praticamente sconosciuto ai più se non per questo pezzo reso celebre dai Fleetwood Mac dell’era Green, “Jumping at Shadows” evidenzia in modo inequivocabile il cambio di rotta di Gary Moore. Le cavalcate heavy sono solo una piccola parte del repertorio e sovente sono finite in soffitta. Ora il blues con le sue ballate colora di nuove tonalità i gemiti della sua Gibson, con un suono pulito e profondo che entra nel cuore della gente esprimendo quella malinconia e sofferenza unica di quel genere, ove tristezza e gioia panica convivono nello stesso momento.

 

«Ho imparato a non avere paura di lasciare spazi. Tutti i chitarristi temono di lasciare un buco, temono di caderci o qualcosa del genere! Tuttavia alla fine ci si sente a proprio agio e diventa una seconda natura farlo. Si crea una grande tensione per il pubblico. Ricordo che ai tempi andavo a vedere gente come Peter Green e provavo quella sensazione: "Oh, cavolo, non vedo l'ora di sentire quella chitarra". O solo un'altra nota, perché il suono è così bello quando la suona. Se hai un feeling con il blues, è una parte importante. Ma devi lasciare questo spazio».