Fidatevi: Jaimee Harris è un’artista ancora poco conosciuta, soprattutto dalle nostre parti, ma su questa ragazza texana, che ha da poco compiuto trent’anni, scommetterei qualunque cosa, sicuro di vincere a mani basse. La sua storia è breve ma intensa, e questo è solo il secondo album pubblicato in carriera. Poca roba, direte voi; eppure, il concentrato di emozioni e il livello artistico dei suoi dischi, sono il frutto di una maturità e di una consapevolezza, difficile da trovare in una musicista di così poca esperienza.
Il debutto di Jaimee Harris, Red Rescue (2018), ruggiva di energia rock, era ferocemente onesto e graffiava d’intensità. Oggi, la songwriter texana, torna con un disco, Boomerang Town, che colpisce ancora il centro del bersaglio, ma lo fa attraverso ballate (elettro) acustiche, un mood cupo e malinconico e una narrazione profondamente poetica.
Queste canzoni nascono durante il periodo della pandemia, quando il mondo si è fermato, e la Harris, come tutti noi, ha rimuginato sul senso dell’esistenza e sulla caducità dell’essere umano. La musicista, originaria di un piccolo borgo vicino a Austin, è partita da queste ombrose riflessioni, per guardarsi alle spalle, al proprio passato, alla sua città natale, alla propria famiglia, agli anni della crescita. In tal senso, Boomerang Town è un disco dai connotati nostalgici, attraversato da un desiderio di casa, intesa non solo come romito degli affetti, ma anche come fulcro di introspezione, un necessario punto di partenza per fare il bilancio della vita e guarire vecchie ferite mai rimarginate. Lo sguardo della Harris, però, non si sofferma solo sulle proprie origini, ma guarda anche al tema delle dipendenze (la vibrante The Fair and Dark Haired Lad, canzone sull’alcolismo), della perdita, dei desideri irrequieti, delle contraddizioni della società, delle scelte politiche.
L’album nasce così da un affastellamento di temi personali e universali, e se è vero che gran parte del materiale contenuto in Boomerang Town è stato ispirato dall'esperienza personale, le canzoni di questa raccolta sono tutt'altro che esclusivamente autobiografiche. In tal senso, i sette minuti della splendida title track, che aprono il disco, raccontano di un desiderio di fuga da una piccola realtà cittadina, nascono da un’intima riflessione, certo, ma evocano anche richiami letterari (Madame Bovary), ed esplicitano un sentimento condiviso da tutti coloro a cui la vita va dannatamente stretta.
Qui, come in tutto Boomerang Town, emergono ritratti di personaggi che vivono sul filo del rasoio tra speranza e disperazione, vittime di una realtà oppressiva, persi in sogni irrealizzabili, spinti a lottare da un desiderio di salvezza, per molti irrealizzabile. Un velo cupo, dunque, si stende sulle dieci canzoni in scaletta, quasi tutte pervase da un senso di ineluttabilità, da un sapore dolce amaro, che evoca tristezza e, per converso, trasmette una delicata carezza consolatoria, esplicitata nella chiosa ottimista di "Missing Someone", un raggio di luce che dissolve i pensieri più tristi.
Il tema del dolore, però, permea gran parte del disco. "How Could You Be Gone", scritta a quattro mani con Mary Gauthier, riflette sulla morte di un caro amico durante la pandemia, e sulla morte, avvenuta nel 2017, del mentore Jimmy LaFave, "Fall (Devin's Song)", racconta di un ex compagno di classe d'infanzia della Harris, deceduto in giovanissima età. Sono canzoni che colpiscono come un coltello che lacera la carne fino a intaccare l’osso, che mettono a nudo la natura senza tempo del dolore, la nostra fragilità di foglie caduche in balia del vento.
Boomerang Town, a dispetto del mood prevalentemente ombroso, è un disco che fluisce con semplicità, e che allinea dieci ballate perfette, alcune vestite di abiti francescani, altre, invece, arricchite da arrangiamenti scelti con cura artigianale, in cui poche note di piano, le frementi scosse di una chitarra elettrica, il lamento di un violino o il ronzio di un violoncello esaltano melodie bellissime. Un songwriting tanto limpido e diretto, quanto profondo, reso ancora più intenso da un soprano dal vibrato potente, che fa della Harris una delle realtà più interessanti dell'attuale scena folk, tanto che paragoni come artisti del calibro di Mary Gauthier, Mary Chapin Carpenter o Patty Griffin, non sono inutilmente sprecati. Album appassionato ed emozionante, imperdibile, direi.