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REVIEWSLE RECENSIONI
22/10/2025
Amorphis
Borderland
Canzoni ispirate ad un Metal dalle venature Folk quelle di Borderland, nuovo lavoro degli Amorphis, capaci di evocare atmosfere epiche e drammatiche, tra growl e melodia, senza mai un calo di qualità. Trentacinque anni di carriera alle spalle e avere ancora senso di esistere.

Vale per gli Amorphis quello che si diceva in occasione della recensione dell’ultimo disco dei Paradise Lost: che contributo può ancora offrire una loro uscita discografica dopo trent’anni e passa di attività? Che cosa è ancora lecito aspettarsi da un gruppo del genere?

Borderland è il quindicesimo album della band finlandese, che in tutto questo tempo ha portato avanti un cammino non troppo dissimile dai suoi colleghi anglosassoni: capolavori a metà degli anni Novanta (Tales from the Thousand Lakes ed Elegy; lavori, soprattutto il primo, più che seminali in ambito Melodic Death) un tentativo estemporaneo di ammorbidire la proposta rendendola fruibile anche ad ascoltatori non avvezzi al Metal (il tutto sommato valido Tuonela, i deludenti Am Universum e Far From Sun), il ritorno sui propri passi, dovuto al mancato accoglimento dell’evoluzione stilistica da parte dei fan storici (e, ovviamente, il parallelo insuccesso nel guadagnare nuovi proseliti).

Morale della favola: dopo avere timidamente visitato la propria comfort zone con Eclipse (2006), che ha segnato anche l’ingresso in line up dell’attuale cantante Tomi Joutsen, nel frattempo divenuto parecchio decisivo nell’economia del gruppo, hanno progressivamente assestato il tiro e prodotto una serie di dischi che li hanno bene o male visti ritornare agli antichi livelli di forma e riguadagnare un certo successo commerciale. Difficile qui indicare un titolo piuttosto che un altro, perché a livello stilistico e qualitativo si equivalgono molto e ognuno, credo, avrà i suoi preferiti: personalmente credo che, dopo l’ottimo Skyforger, l’apice sia stato raggiunto in tempi recenti con Circle, Under the Red Cloud e Queen of Time, quest’ultimo a mio parere un autentico capolavoro da seconda ondata.

 

Borderland arriva tre anni dopo Halo e, sin dalla splendida copertina firmata dall’olandese Marald van Haasteren, dimostra di voler puntare più in alto rispetto al predecessore. La formula è sempre la stessa, vale a dire una serie di canzoni ispirate ad un Metal dalle venature Folk, relativamente elaborato nelle partiture e caratterizzato dall’alternanza tra una strofa robusta e spesso cantata in growl, e un ritornello arioso e fortemente melodico, ad evocare atmosfere ora epiche, ora più intensamente drammatiche. Joutsen si occupa di entrambi i registri con estrema disinvoltura (la sua versatilità è stata dopotutto il motivo per cui Tomi Koivusaari ha deciso ad un certo punto di concentrarsi unicamente sulla chitarra), le tastiere di Santeri Kallio sono fondamentali nel tessere le varie trame strumentali, andando ad interagire sempre con grande efficacia con le sei corde di Esa Holopainen e del già citato Koivusaari (e che gli unici due superstiti della prima ora siano anche quelli più coinvolti nella scrittura dei brani spiega molto dell’attuale stato di forma della band).

Insomma, un gruppo di musicisti affiatato e da lungo tempo stabile, con una scrittura che, disco dopo disco, non accenna a calare nell’ispirazione; e tutto ciò, si badi bene, indipendentemente dal fatto che bene o male le carte in tavola siano sempre quelle: è vero che dal 2007 ad oggi i cambiamenti sono stati pressoché nulli, ma fino a quando continueranno a regalarci canzoni di questo calibro, non credo che nessuno si lamenterà.

 

Nello specifico, i pezzi di Borderland si distinguono per un maggiore utilizzo delle clean vocals e per i refrain di facile presa che sono nel complesso più numerosi e molto più efficaci rispetto al disco precedente. Questo, unito a parti strumentali di pregevole fattura, garantisce alcuni degli episodi più belli degli Amorphis degli ultimi anni: su tutti “Bones”, che può rivaleggiare senza troppi problemi anche coi vecchi classici, ma anche “Fog to Fog”, “The Strange” o “Light and Shadow”, quest’ultima un po’ leggerina ma nel complesso valida e poco ruffiana.

Splendida poi la title track, ammantata di grandiosità epica, mentre la conclusiva “Despair” si avvale di una elaborata parte strumentale dove le tastiere si ergono a protagoniste, ottimamente sostenute da una sezione ritmica in splendida forma.

Trentacinque anni di carriera alle spalle e avere ancora senso di esistere.