Quando qualche anno fa, tra il serio e il faceto, rispondendo a un commento su Facebook tirammo in ballo Claudio Trotta chiedendogli di portare in Italia Brandi Carlile (e già che c’eravamo, anche Jason Isbell), mai avremmo immaginato che quella battuta sarebbe diventata realtà. E invece eccoci qui, una sera di metà luglio, a vivere un piccolo sogno a occhi aperti: il primo concerto italiano di Brandi Carlile, in una cornice mozzafiato come l’Anfiteatro del Vittoriale degli Italiani, perla assoluta di Gardone Riviera. Merito a Claudio Trotta per aver raccolto la sfida e a Tener-a-mente Festival che l’ha inserita in un cartellone di altissimo livello anche quest’anno (tra graditissimi ritorni come The The e il comeback attesissimo di Morrissey) offrendo al pubblico italiano qualcosa di più di un semplice evento musicale: un’esperienza.
Arriviamo sul posto solo verso le 20, complice in traffico in uscita da Milano. Il lago di Garda, visto dalle gradinate del Vittoriale, è un incanto che non smette mai di sorprendere, ma lo spettacolo vero inizia ancora prima che le luci si accendano sul palco: il pubblico di Brandi. Una comunità inclusiva, ordinata, colorata, visibilmente queer, composta da moltissimi giovani e caratterizzata da una parità di genere sorprendentemente equilibrata. L’impressione è che molti siano stranieri (soprattutto americani) che hanno scelto di seguire la loro beniamina approfittando del fascino di un contesto unico come il Vittoriale e quindi di fare qualche giorni di vacanza in riva al Garda, proprio come accaduto l’anno scorso quando Taylor Swift si è esibita a San Siro.
Del resto, se in Italia il nome di Brandi Carlile non ha mai goduto di un’esposizione mainstream, nel mondo anglosassone è una superstar: vincitrice di Grammy a raffica, album al numero uno di Billboard, concerti sold out alla Royal Albert Hall e performance da protagonista al Pyramid Stage di Glastonbury. Una statura artistica confermata anche dalla recente collaborazione con Elton John, culminata in un disco a quattro mani (Who Believes in Angels?) arrivato primo in classifica nel Regno Unito. Brandi oggi è più di una cantautrice: è un simbolo, un punto di riferimento, una voce unica della musica americana contemporanea.
Alle 20:39 sale sul palco Audrey McGraw, figlia delle leggende del country Tim McGraw e Faith Hill. Ventitré anni, look essenziale e grande emozione, si esibisce in acustico per pochi ma intensi brani. Accompagnata dal chitarrista e corista Kyle Miller, Audrey si alterna tra piano e chitarra, chiacchiera con grazia e riconoscenza, e conquista con una manciata di originali e cover, tra cui una versione della messicana “Cucurrucucú Paloma” (niente Battiato, ma l’originale), “Barracuda” delle Heart e una riuscita “I Am... I Said” di Neil Diamond, suo primo singolo uscito un paio di mesi fa.
La voce è notevole, sviluppata su tre ottave, con timbriche che ricordano Angel Olsen e Grace Cummings. Il suo set si chiude con una canzone scritta insieme a Lukas Nelson, che farà parte del suo album d’esordio in lavorazione con David Baron (già al lavoro con The Lumineers e Noah Kahan). Insomma, una giovane artista da tenere d’occhio.
Alle 21:10 Audrey lascia il palco, e con velocità chirurgica i backliner preparano il cambio. Nessuna batteria, solo chitarre acustiche. Sullo sfondo, una playlist tutta al femminile, con Stevie Nicks, Joan Jett e Cyndi Lauper. E qui nasce un sospetto: che Brandi ci stia preparando a qualcosa di speciale? Forse un concerto tutto acustico, alla maniera delle sue celebri Joni Jam, nate per far tornare Joni Mitchell a esibirsi? Alle 21:30 in punto, Brandi Carlile sale sul palco con gli inseparabili gemelli Phil e Tim Hanseroth. Sono solo in tre e imbracciano strumenti acustici – e il sospetto si conferma.
Si parte con “Raise Hell” e da subito è chiaro il tono della serata: essenziale, intima, autentica. Le prime sette canzoni vedono Brandi da sola con gli Hanseroth Twins, come agli esordi, quando si esibivano come Brandi Carlile Band. Un ritorno alle radici, fatto di armonie vocali perfette, intesa telepatica e un’emozione palpabile che attraversa ogni brano – dopotutto, i tre suonano insieme da venticinque anni, quando l’allora produttore dei Pearl Jam Rick Parashar li fece incontrare e iniziarono a suonare come busker per le strade di Seattle. “Right on Time”, riarrangiata in stile Laurel Canyon (come nella deluxe edition di In These Silent Days), e “Cannonball”, suonata senza amplificazione, voce e chitarre a pochi passi dal pubblico, sono momenti da brividi.
Quando Brandi resta sola sul palco, si prende un momento di raccoglimento e intensità emotiva eseguendo “You Without Me” e “The Mother”, due canzoni profondamente personali ispirate alla crescita della figlia maggiore, Evangeline. La seconda si conclude con una nota ironica e tenera, con Brandi che aggiunge fuori testo il nome della secondogenita: «‘Cause I’m the mother of Evangeline... and Elijah too», strappando un sorriso complice al pubblico.
È in quel momento che fanno il loro ingresso le SistaStrings, il duo formato dalle sorelle Monique e Chauntee Ross, rispettivamente al violoncello e al violino. La loro presenza arricchisce ulteriormente il suono, introducendo una nuova dimensione armonica e lirica alla serata. Dalla successiva “You and Me on the Rock”, accompagnata anche dal tastierista e con il rientro dei gemelli Hanseroth, il concerto evolve in una dimensione piena e orchestrale, dove ogni brano si fa racconto condiviso, viaggio collettivo, esperienza corale.
Spicca per intensità e spiritualità la versione di “Who Believes in Angels?”, tratta dal disco realizzato con Elton John, proposta in una veste quasi gospel. A precederla, un breve ma sentito monologo in cui Brandi racconta il legame con Elton: prima eroe dell’adolescenza, poi figura guida e oggi vero amico. Un passaggio generazionale e umano che Brandi restituisce con gratitudine e sincerità, lasciando trasparire quanto la collaborazione con lui abbia rappresentato un punto culminante (e insieme una sfida artistica) nella sua carriera.
Durante il concerto, tra una canzone e l’altra, non possiamo non cogliere uno scambio di battute tra due giornalisti di settore di lungo corso: «Ti avevo detto che ti sarebbe piaciuta», dice uno. «Molto al di sopra delle aspettative», replica l’altro. «Ma non eri tu a dire che non era originale?», incalza il primo. «Vero, ha avuto un periodo in cui sembrava imitare i The Lumineers e i Mumford & Sons, ma ora ha trovato la sua strada». Ed è proprio così.
Se l’esordio omonimo e in particolare album come The Story e Give Up the Ghost hanno rappresentato tappe fondamentali per consolidare il suo nome, con i successivi Bear Creek e The Firewatcher’s Daughter, Brandi stava guardano un po’ troppo alle mode del momento. Ed è con By the Way, I Forgive You e ancor più con In These Silent Days che ha compiuto una vera metamorfosi. In quei dischi ha trovato una voce inconfondibile, una scrittura più profonda e un’estetica sonora che guarda a un rock cantautorale di matrice anni Settanta, tra Paul McCartney, Elton John e Joni Mitchell, tra il Laurel Canyon e Nashville, costruendo un ponte tra tradizione e contemporaneità che oggi è diventato la sua cifra stilistica. Lo aveva promesso in apertura: «Pescherò da tutte le epoche della mia carriera». E così è stato, ma è evidente dove batte più forte il suo cuore. I brani più recenti non solo dominano la scaletta, ma sembrano anche riflettere meglio il suo stato d’animo attuale, la sua maturità artistica e la sua urgenza espressiva.
Dopo una “The Joke” da brividi (quel crescendo vocale prima dell’ultimo ritornello ha davvero qualcosa di miracoloso) e una “A Case of You” di Joni Mitchell interpretata con un’intensità quasi soul, la band lascia brevemente il palco. Le SistaStrings ne approfittano per offrire al pubblico un paio di improvvisazioni strumentali, in una delle quali si riconosce il tema di “Feeling Good” di Nina Simone, eseguito con eleganza e un tocco di leggerezza che smorza l’attesa per l’ultima parte del concerto. Brandi e la band tornano per “Sinners, Saints and Fools”, dove le SistaStrings si prendono ancora la scena in un intermezzo strumentale che omaggia l’Italia con un frammento di “Con te partirò” di Andrea Bocelli. Una scelta forse discutibile per i nostri gusti, ma che funziona nel contesto e strappa comunque un applauso compiaciuto.
A questo punto, Brandi richiama sul palco Audrey McGraw per un duetto sorprendente: “Unchained Melody”, cantata a due voci in modo impeccabile, toccante e misurato. «Avrei voluto registrarla», dice Brandi al termine, elogiando Audrey come «la voce del XXI secolo». La chiusura è affidata a “Party of One”, con tutta la band riunita sul palco. Brandi presenta uno per uno i suoi musicisti con generosità e affetto, in un momento che sembra dire: «Non è solo il mio show, è il nostro». Poi, quando tocca a lei presentare se stessa, si limita a un umile, sorridente: «My name is Brandi and I am a lucky girl». E noi, tra le gradinate affacciate sul lago, lo sappiamo benissimo che la fortuna, questa sera, è stata tutta dalla nostra parte. Un debutto italiano memorabile, che speriamo (come lei stessa si è augurata dal palco) sia solo «the first of many more». Il pubblico c’era, il calore anche, la magia pure. Adesso, manca solo il seguito.