Dunque è successo, se n’è andato Brian Wilson.
Mi sono immaginato spesso come sarebbe stato questo momento per noi che lo abbiamo amato, conosciuto nei punti di forza e nelle debolezze, compreso, temuto perso e poi festeggiato nei momenti di rivincita. Mi è capitato di pensare poi a questo giorno anche e soprattutto in un senso più personale, confrontandomi con l’importanza della sua dottrina musicale nel mio vissuto e al vuoto che avrebbe lasciato.
Lasciandomi vincere dalle trame delle sue armonie, dei suoi arrangiamenti, spesso mi è successo di “risvegliarmi” da questi ascolti e scoprire di aver passato, su quei tre minuti e mezza di canzone, quasi un’ora. Ed era ogni volta sublime, come se fossi arrivato a toccarne qualcosa di intimo ma in quel momento perfettamente visibile, eppure c’era sempre stato, come avevo fatto a non vederlo prima?
E allora pensavo a lui giovane, poco più che ventenne, già intrappolato in quella mente del settantenne che sarebbe diventato. Perché pensarlo mi dava uno strano conforto, pensare anche solo che l’autore di tutto ciò ci fosse ancora, esistesse, nonostante sembrasse aver perso ogni filo di conduzione col passato, cosa messa nero su bianco dalla scomparsa (in realtà già dai primi anni settanta) di quel suo indimenticabile falsetto.
E ogni volta mi tranquillizzavo. C’è ancora, mi dicevo, ci dicevamo. Insieme a tutto ciò che non è riuscito a dire, insieme alla sua lunga insoddisfazione, ma anche alla sua genialità sempre più riconosciuta, al suo stile avanguardistico, che lo ha reso uno dei massimi geni musicali del Novecento e di cui pare portarsi dietro il fardello anziché l’orgoglio.
Insomma c’è del meraviglioso, ma c’è sempre un sentimento contrario dalla risacca sofferente. C’è una rinascita ma mai del tutto. C’è un riconoscimento universale, ma sempre attenti a dirlo a voce bassa, con rispetto.
Di una cosa siamo certi, Brian ha riempito il pianeta di positività. È stato un artista che nella difficoltà del suo percorso umano e psicologico è riuscito comunque a uscirne vivo. Chi ha visto i film Love & Mercy, Beautiful dreamer, o che semplicemente conosca la storia sa di cosa stia parlando. Il punto però anche qua è un altro, e posso dire totalmente positivo.
Non starò qua a scriverne una biografia in stile Bignami di cui sono pieni gli scaffali e il web e che non servirebbero a nessuno, tantomeno a me, in questo momento in cui sto sospeso fra il lutto e il memoriale. Però ecco, aspettavo con incertezza questo momento da diverso tempo, sapevo, sapevamo che sarebbe successo. E che tutta quella quieta serenità del genio placido in silenziosa attesa nella sua poltrona se ne sarebbe andata e nella nostra mente sarebbe diventata altro. To pass away. La parola che mi gira in testa in queste ore.
Quindi cosa scrivo, un memoriale? Un ringraziamento? Non lo so ancora, ma so che spesso l’improvvisazione, quella vera, quella in cui ti getti, ti regala delle strade impreviste e delle chiavi di lettura illuminanti.
Comincio dicendo che siamo in molti, da quando è venuta fuori la notizia, a scriverci e soprattutto cercarci. Perché non basta dare la notizia, vedo. Una volta detta, ognuno aggiunge qualcosa di profondo e personale, un link diretto con quel mondo che ci ha lasciato in mano Brian e con cui ognuno di noi pare forse non aver ancora fatto del tutto i conti. E questa ricerca di qualcosa di speciale che ognuno intenta dentro di sé, questo sforzo di raccontare la bellezza mi sembra di per sé un punto di arrivo.
Penso che la ruvida sincerità paghi, sempre. E penso che in un artista, quando scrive, arrangia e dirige, questo lato di purezza lo possa mettere a nudo fino ad arrivarci dentro chiaro e limpido a noi che ascoltiamo, ma anche fino all’estremo opposto di distruggere l’artista stesso.
Brian non lo faceva con le parole, anche se quel suo ultimissimo barlume di genialità targato 1971 dal titolo "‘Til I die", contiene delle parole di profonda riflessione rispetto proprio al tema della morte da sfiorare il testamento. E se non lo faceva con i testi riusciva a farlo con le armonie, con gli accordi, con le innovazioni, con gli arrangiamenti in cui ogni nota di un settetto d’archi parlava di lui.
In quel senso sentitevi la traccia isolata degli archi di "Don’t talk" da Pet Sounds e fate caso a come quelle viole, in quell’arrangiamento di archi, siano rappresentative non solo della sua grandezza come arrangiatore ma forse ancora più in quella di far essere l’arrangiamento uno specchio perfetto del proprio animo, delle proprie incertezze di ventiduenne che scrive dei propri dubbi.
Ma anche lo scherzo e la voglia di beffeggiarsi del prossimo, di alleggerirsi con temi insoliti, come ha fatto con la canzone "Vega-tables" in cui usava come ritmo lo sgranocchiamento di sedani e carote (a cui pare abbia partecipato Sir McCartney) per comunicare al mondo di aver capito la positività del mangiare verdure. Lui che poi dipendeva dagli hamburger. Il primo pezzo vegetariano della storia, contenuto in Smile (e traslato nel suo psichedelico e affrettato surrogato Smiley Smile).
La sappiamo la storia di Brian, un uomo che conteneva uno spirito di avanguardia talmente più grande di sé e dei suoi tempi da trovarsi da solo ad affrontare lo spirito di fallimento. Pensiamoci, aveva 24 anni, aveva già scritto il 99% delle canzoni per cui lo conosciamo, ma si sentì finito.
E allora penso che forse oggi ognuno di noi si senta un briciolo in diritto di essere portavoce di questa povera vittima di se stesso, perché lo abbiamo tutti capito, ma non glielo abbiamo mai detto. Ad ognuno capita di sentirsi così e niente c’è di peggio della solitudine, della propria giusta visione non capita. Bene, forse vogliamo urlarglielo a gran voce, proprio oggi, che non solo lo abbiamo compreso, ma che lo sentiamo dentro.
Ognuno cerca un appiglio diverso del proprio legame con Brian, chi con la scrittura spensierata dei primi anni, chi con l’innovazione raggiunta con la riuscita di "Good Vibrations", primo esperimento di canzone modulare nella storia, scritta e registrata a sezioni strutturali e poi successivamente assemblata. Il tutto fatto a nastro; pare che il master, la bobina finale, fosse un agglomerato di pellicole tenute insieme da innumerevoli (e imbarazzanti) lembi di scotch, che al girare della bobina sventagliavano rumorosamente.
Qualcun altro invece oggi cerca e trova un proprio legame per quella maniera unica e inimitabile di mettere insieme le voci dei suoi Boys. Uno stile di arrangiamento vocale che ho studiato e messo in pratica a lungo e (credetemi) è una delle chiavi di lettura più semplici del genio artistico di Brian. Una di quelle cose che ti rapisce, ti tira fuori un sorriso e non sai perché. Un coro che diventa suono e mette un ulteriore ingrediente a quel metodo di scrittura destinato in quei frangenti ai juke box, quindi all’intrattenimento di coetanei e al ballo.
La canzone "I get around" fu per me lo spartiacque di un metodo in evidente evoluzione, così debordante che poteva diventare soltanto qualcosa di nuovo e mai visto. Un arrangiamento vocale in cui la melodia principale e lead gira da un cantante all’altro, senza di fatto farne un aspetto strutturale ma di gusto, di sapore. Pare che gli stessi Beach Boys, quando Brian introdusse tutti all’arrangiamento corale che aveva scritto, si siano guardati stupiti, come con un senso di stordimento, rispetto a quella che era un’abitudine non solo nelle loro canzoni ma almeno nella musica pop in generale, che ricordiamoci stava inconsapevolmente nascendo. Un po’ come se Brian avesse preso delle ispirazioni apprese e imparate da Bach o da Gershwin e le avesse traslate in un linguaggio a sé familiare e fruibile a tutti.
Chiunque lo ricorda per ciò che fece con Pet Sounds, album oggi universalmente riconosciuto come il suo capolavoro artistico (ma che non fu accolto assolutamente bene dalla critica), in cui, una volta abbandonate le vesti di bassista e cantante dal vivo, si dedicò esclusivamente alle nuove canzoni e allo studio di registrazione e si fece circondare dai musicisti di prim’ordine di cui sentiva il bisogno.
Assoldò The Wrecking Crew, i turnisti più utilizzati negli Stati Uniti al tempo, praticamente gli artefici del suono di ciò che passava in radio, che il suo mito Phil Spector utilizzava da anni nelle proprie produzioni e a cui Brian voleva assolutamente avvicinarsi. Sviluppò in questo senso il proprio ruolo di scrittore behind the curtain, portandolo fino ad inventarsi, delineandolo sulla sua stessa sagoma, un vero e proprio nuovo ruolo, in cui univa la scrittura, gli arrangiamenti, la produzione artistica, la direzione musicale e sonora. Il tutto affiancato da uno scrittore di testi che fu Tony Asher nel caso di Pet Sounds mentre per Smile! avrebbe creato uno dei migliori sodalizi di parole e scrittura di sempre con Van Dyke Parks.
C’è chi oggi pensa a "God only knows", e come dargli torto, a quell’amore detto ed espresso così perfettamente in una canzone talmente sublime che si permette di essere senza ritornello, in una delle composizioni più belle in assoluto. Eppure è sostenuta da un’armonia che ancora oggi è considerata uno dei più riusciti esempi di composizione per rivolti, col basso che scende con un ovvia costanza e gli accordi che ci girano intorno, districandosi da quel gomitolo armonico con una naturalezza che ti accompagna a fine giro per farti ritrovare diabolicamente al punto di partenza ed a rifare i conti con quel senso di attesa da cui tutto è partito. C’entra qualcosa con l’amore? C’entra qualcosa con l’assenza che percepiamo mentre amiamo?
Che poi, a proposito di canzoni d’amore, gli si perdona anche il tentativo di plagio, come fai a non farlo, quando per omaggiare la bellezza di "Be my baby" e la produzione di Phil Spector, ha creato "Don’t worry baby". È partito da un punto già esistente, da una sensazione di arrivo, ma passando dalla creazione di una nuova perla.
Io ho annegato i pensieri in quell’opera d’arte che sta tra la commedia e chissà che altro, che è diventato SMiLE! e ho inquadrato "Surf’s up", con il suo spirito di racconto di una dimensione immaginata, aristoratica, agli inizi del Novecento, talmente spostata indietro per Brian e per le meravigliose parole di Van Dyke, che oggi possono suonare soltanto come un avvertimento, un presagio in cui puoi vedere una poesia ma anche le macerie date dalla potenza delle sue parole. In quel senso “Columnated ruins domino”.
Mi piace immaginarmi Brian consapevole, toccato da una visione in cui l’aveva portato la scrittura di quest’opera, così sensibile e fraterno da lasciarci le parole e il suono, ma anche il compito di decifrarne la vera natura.
Ripenso a com’è cominciata questa giornata e vedo tante cose simili ripetersi come in un dolce ingranaggio, apro il telefono e conto chi oggi ha cercato appiglio nel contatto tra se stesso e la musica di Brian e in quel senso leggere “impossibile non pensarti”, cuori infranti, “Sad day today”, “Grazie per avermelo fatto conoscere” o che il primo pensiero della giornata andasse a me ha fatto scattare qualcosa. Piccoli pensieri spontanei e incrociati che hanno acceso una nuova fiammella, la quale non ha faticato a trovare il proprio spazio liberatorio e soprattutto la sua funzione.
Allora facciamo così, Brian, diciamo che ci sei riuscito, ci hai costretti a ritrovarci e a parlare di te, a “sentirci”, a rispolverare i vinili o a smuovere addirittura quel freddo algoritmo di cui ignoravi l’esistenza. Io spero che tu abbia assaporato un senso di pace con te stesso e con i tuoi demoni, circondato dall’amore familiare. Noi, nel nostro futuro, siamo ampiamente al sicuro circondati dai tuoi tesori.
Però un dubbio mi rimane; io cerco di non pensarci alla parola solitudine, con cui sono abituato a immaginarti, penso alle persone che hanno speso un pensiero, per legare una canzone di Brian a un proprio ricordo e hanno lanciato briciole di stella nel cielo, così dice. Perché questo è tutto fuorché solitudine.
Ma allora perché, Brian, hai scelto di far chiudere la canzone a cui TUTTI sappiamo di star pensando in questo momento, con le parole “without you?” Perché così ci costringi a chiudere con una domanda e a ritrovarci al punto d’inizio, per pensare che Dio solo sa cosa saremo senza di te.