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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
27/02/2024
Live Report
Brianza New Wave Festival: Schonwald + Iamnoone + Castelli + I Malati Immaginari, 24/02/2024, Tambourine, Seregno
Della ottima Coldwave suonata al Brianza New Wave Festival al Tambourine di Seregno, con Schonwald, Iamnoone, Castelli e I Malati Immaginari, e delle riflessioni sulla (dark)wave contemporanea. Dagli anni Ottanta agli anni Venti ballando nel lato oscuro.

Da qualche tempo le mie letture votate alla ricerca di concerti, incrociavano Brianza New Wave come promoter, quindi, dopo aver “mancato” una serie di concerti interessanti, a fronte della possibilità di sentire quattro gruppi specializzati in Coldwave, come si poteva mancare?

Giungendo con colpevole ma doveroso ritardo (avendo dovuto abbandonare, prima del dovuto, la festa per il 50° anniversario di un caro amico) ho perso l’esibizione, dei primi due act di questo “mini-festival”, ovvero I Malati Immaginari e Castelli, riuscendo comunque a fare due chiacchere con entrambi, che vi riporto per completezza del live report.

 

Di Castelli, ho già scritto qui e la sua proposta ha quale audience di riferimento tutti gli appassionati di quel filone della new wave più melodica, che si sposa col synth pop di matrice eighties votato ad  una particolare cura negli arrangiamenti; una proposta che dovrebbe arricchirsi di un prossimo disco che uscirà dopo l’estate.

Voglio altresì spendere due parole per I Malati Immaginari, perché questi due ragazzi per me sono la dimostrazione “vivente” (alla pari, per fortuna, di molti altri) del fatto che ciò che muove chi fa musica underground (qualunque sia il genere della proposta musicale offerta) risulta essere, al fondo, una grande ed infinita passione. Solo così si spiega il sobbarcarsi la fatica di venire e tornare a Vasto in giornata (ed essendo per lavoro andato più volte a Pescara e a Chieti vi assicuro non sono pochi chilometri) per proporre un set “compresso” all’interno di una serata ricca di esibizioni. Quindi, in bocca al lupo a Laura e a Dario per la prossima pubblicazione dell’EP Emostatico.

 

La seconda parte della serata ha visto avvicendarsi sul palco due gruppi che invece prediligono il cantato in inglese.

I primi ad esibirsi sono stati gli Iamnoone (moniker che gioca sull’essere nessuno, come disse Ulisse al Ciclope Polifemo), duo parmense che ha già nel suo carniere un EP e 4 album di cui l’ultimo, Together alone, uscito nel 2023 per la nota label di settore Cold Transmission, alla pari dei precedenti due album. Sinceramente non avevo mai ascoltato nulla di questa band e devo dire che il loro sound, in puro stile Joy Division/primi New Order e The Cure, risulta fortemente influenzato dalle sonorità tipiche della prima scena wave anglossassone. A conferma di questo, sposo il commento del mio amico Walter (che di bassi se ne intende), il quale mi ha fatto notare che Filippo Galleani (uno delle due metà degli Iamnoone) sembrerebbe usare il Fender Bass VI, ovvero un basso a sei corde, utilizzato da Robert Smith in molte delle sue composizioni, vedasi ad esempio l’iconica “Picture of You”. La setlist è stata molto variegata, non focalizzandosi solo sull’ultimo album, ma proponendo anche diversi brani tratti dal precedente Dead Season, più l’inedito “In fear”.

 

La serata si è ovviamente conclusa con il concerto degli headliner, il duo ravvenate degli Schonwald, alias Alessandra Gismondi e Luca Bandini, una delle band italiche oramai maggiormente rappresentative, non solo a livello nazionale, della cosiddetta coldwave.

Tale termine, nato in Francia ad inizio anni ottanta, è poi divenuto di uso corrente per indicare una wave dove predominano sonorità sintetiche con un senso di maggiore ariosità rispetto al più plumbeo gothic rock, pur rimanendo fedele ad un post punk decisamente a tinte noir.

Gli Schonwald, seppur con una setlist limitata ma di assoluto livello (dovuta anche a ragioni di timing, per mantenere un “buon vicinato”) hanno dimostrato ancora una volta che l’Italia, per parafrasare uno slogan in voga negli ultimi tempi, può presentare delle eccellenze non solo alimentari (che va comunque bene) ma anche musicali, alla faccia del malvezzo che attanaglia gli italiani, che incensano gruppi stranieri ritenuti, unicamente per la nazionalità di provenienza, di livello superiore.

 

Alla fine di questa kermesse wave mi sono posto due domande, in un qualche modo connesse, che vorrei condividere con voi: perché, soprattutto negli ultimi anni, emerge questo interesse di ritorno a quelle che all’epoca venivano definite sonorità “oscure”? È possibile sostenere che la “wave contemporanea” non sia un fenomeno meramente passatista ma abbia un fattore, un elemento caratterizzante, rispetto ai padri del goth?

La risposta alla prima domanda (a mio parere, ovviamente sindacabile) non è prettamente musicale ma possiede anche un sostrato di natura sociologica. La new wave, come del resto tutta la musica, è frutto del suo tempo.  

Agli inizi degli anni Ottanta (e chi era adolescente a quel tempo se ne ricorderà sicuramente) il mondo era diviso ancora in schieramenti definiti: da una parte l’Occidente, dall’altra la cortina di ferro (il famoso Patto di Varsavia cantato dai CCCP) con l’annesso pericolo nucleare (il Trattato INF venne siglato tra Reagan e Gorbachev solo nel 1987).

In Inghilterra, patria di questa corrente musicale, esisteva la questione irlandese con gli ultimi bagliori della Guerra civile, la disoccupazione si trovava su livelli altissimi, lo scontro sociale con il governo Thatcher era fortemente divisivo (chi scrive conserva come una reliqua l’album dei Test Dept, Shoulder to shoulder, dove l’ensemble industriale invitava a non pagarlo più di £ 3.99, inciso con il coro dei minatori del South Wales in lotta contro la Iron Lady), il Regno Unito era in Guerra con l’Argentina per le isole Falkland/Malvinas, ed al contempo era in festa per le nozze tra Carlo e Diana.

L’Italia, stava uscendo faticosamente dalla stagione del terrorismo e delle lotte sociali degli anni Settanta, si apprestava a vivere gli oramai famosi (e passati) “anni da bere” e, a livello di costume sociale, anche grazie alla televisione (Drive In dice qualcosa?) si immedesimava in un habitus borghese, che aveva quale epitome il “paninaro” cantato anche dai Pet Shop Boys.

In quell’epoca di forti contraddizioni, dopo la furia iconoclasta del nichilismo punk, emerse in molti teenager un altro tipo di sensibilità: l’odio verso il conformismo (o presunto tale) della società, che diventa sfiducia personale; l’agghiacciante scoperta che, per vivere il mondo, occorre indossare una maschera, che tuttavia non è più quella “istrionica” e cangiante del punk; occorre quindi vestirsi di un “non colore” come il nero, sia per esibire all’esterno il proprio spleen, sia per celare agli occhi dei più il proprio intimo.

Ai giorni nostri, in maniera differente, viviamo tempi incerti: dopo quasi cento anni l’Europa vive un conflitto al suo interno, la Guerra in Terra Santa (e in tante altre parti del mondo che non sono sotto l’occhio dei media), il conflitto tra USA e la Russia (sia Trump che Putin sono receduti dal Trattato INF) e quello sotto traccia tra l’Occidente e l’Oriente, in primis la Cina. Dal punto di vista lavorativo-sociale viviamo gli stessi tempi di incertezza, con l’ombra “minacciosa” delle ricadute sul mondo del lavoro dell’AI, e via dicendo.

Quindi, da questo punto di vista, lo stesso disagio e timore del futuro che alimentò alcune frange della gioventù di quell’epoca si ripropone in termini diversi agli uomini e donne di oggi. Anche perché, non volendo entrare in un discorso che richiederebbe altri tempi e spazi, chi è parte attiva e/o segue la scena darkwave di solito non è più ancor così giovane, fatte ovviamente le debite eccezioni.

 

Per rispondere alla seconda domanda, invece, non posso non rilevare come uno dei fil rouge che lega tutti gli act sia, in un modo o nell’altro, una dimensione danceable del suono. Non per niente Alessandra e Luca (Schonwald) perseguono da tempo un progetto parallelo chiamato Shad Shadows, anch’esso meritevole di ascolto, maggiormente orientato su un lato dancefloor-ebm.

Penso quindi che questa sia la grande differenza rispetto al dark degli anni Ottanta e che sotto questo profilo, seppur nel loro dna questi gruppi siano profondamente innamorati di quel tipo di sonorità, il lato “modernista” (perlomeno negli esponenti più attenti alle novità del mondo musicale) sia proprio quello che recepisce una serie di contaminazioni elettroniche che, in un’ottica puristica, verrebbero squalificate da un termine che all’epoca suonava come uno stigma, “dance”, ma che, dal mio personale punto di vista, permette di dire che la storia si ripete ma, almeno nel campo musicale, per fortuna, non sempre in uguale maniera.