Quella di Monza è stata l’ultima tappa europea del tour di Bruce Springsteen, il primo in sette anni, se si eccettua la residency a Broadway del 2018. Ultima tappa di uno spettacolo che è partito a febbraio dagli Stati Uniti, ha attraversato il Vecchio continente per una trentina di date e riprenderà a novembre in Canada. Tutto questo non tanto per sottolineare lo sforzo non banale a cui il musicista, ormai 74enne, si sta sottoponendo, quanto per dire che ormai si è scritto di tutto e di più sull’argomento, per cui non vedo cosa questo pezzo possa aggiungere di nuovo. Dirò la mia, senza troppe pretese.
Ricapitolando brevemente i fatti, da Broadway ad oggi, prima e dopo lo stop forzato della pandemia, Springsteen ha prodotto tre dischi, due originali e uno di cover Soul, ragion per cui sarebbe stato lecito aspettarsi uno spettacolo maggiormente incentrato sulle cose nuove, fenomeno che in pratica non accadeva davvero dai tempi di The Rising (si potrebbe anche includere Wrecking Ball, i cui brani sono stati comunque suonati a sufficienza nel biennio 2012-2013, anche se l’impianto dello spettacolo era sempre quello del carrozzone Jukebox).
Non è andata così, come ormai sanno anche i sassi: alla partenza di Tampa, Florida, ci si è resi conto che Western Stars era stato già consegnato agli archivi, Letter to You era rappresentato con una manciata di pezzi che si sarebbero progressivamente ridotti col passare del tempo (da mesi siamo stabilmente a quattro), mentre Only the Strong Survives, il suo personale omaggio alla tradizione Black, che pure avrebbe potuto essere valorizzato appieno dalla versione “allargata” della sua E Street Band, è stato omaggiato con un paio di pezzi, quasi immediatamente ridotti ad uno.
Amaro in bocca, inutile dirlo. Perché se c’è un motivo per vedere Bruce Springsteen nel 2023, soprattutto per uno che lo ha già visto parecchie volte in passato e che da tempo, pur rimanendo legato alla musica, si è un po’ disamorato dell’uomo e dell’artista (posto che il delirio messianico che parecchi fan ostentano nei suoi confronti mi ha sempre nauseato) è quello di sentirgli suonare musica nuova. In passato i dischi non sono mai mancati, anzi, assieme a Van Morrison e a Neil Young è uno dei più prolifici tra quelli della vecchia generazione. Più che altro, l’ho già detto, le nuove canzoni sembravano più un mero pretesto per andare in tour, non tanto delle tappe importanti di un percorso. Quello, almeno dal mio punto di vista, c’è stato fino al disco delle Seeger Sessions, poi è sparito. Adesso, se te ne esci con tre dischi nuovi in poco meno di tre anni dopo che è da tempo immemore che te ne stati fermo a casa, era forse lecito attendersi che quei brani sarebbero stati protagonisti.
Non è accaduto ed è un peccato perché poi i pezzi di Letter to You, per quanto lo consideri un disco nel complesso appena sufficiente, con dei punti in cui sfiora l’imbarazzante, dal vivo spaccano eccome. E soprattutto, si ha avuta netta la sensazione che per lui fossero importanti: “Ghosts”, che celebra la gioia di suonare con gli amici di sempre, e che alcuni hanno voluto definire (esagerando, certo, ma almeno nell’essenza il paragone ci sta) una “Born To Run” più matura e consapevole, sparata a razzo nelle primissime battute, la title track che diventa una riflessione sull’essere artista e sul rapporto col proprio pubblico, “Last Man Standing”, suonata in solitaria coi contrappunti di tromba di Barry Danielian, commosso omaggio all’ex Castiles George Theiss ma anche profonda e commovente riflessione sul rapporto tra morte e vita (quella del treno in corsa che quando arriva illumina coi suoi fanali tutta la realtà circostante, l’hanno già riportata tutti, evito di ripetermi). E poi “I’ll See You in My Dreams” in chiusura, anche questa in solo acustico, che nonostante le rassicurazioni sul fatto che l’anno prossimo avremo un altro giro di giostra (quel “We’ll come back!” urlato lì nel finale non dovrebbe lasciare spazio ad equivoci), non può non essere vista come una sorta di canzone di commiato, quasi il testamento spirituale di chi sa (parafrasando lui stesso) che ci sono ormai un numero limitato di tramonti e di cieli stellati di cui poter godere.
Se aggiungiamo che tre di queste quattro sono state eseguite coi sottotitoli che scorrevano sui maxi schermi (una cosa che non ho mai visto fare da nessuno), che l’introduzione parlata prima di “Last Man Standing” è uguale sera dopo sera e costituisce l’unico momento in tal senso in tutto lo show, possiamo capire che a lui quei pezzi interessavano, e ancor più interessava che arrivasse il loro messaggio.
E allora la domanda rimane: perché così pochi? Perché nulla da Western Stars, che oltretutto ha pure un concept interessante (il più solido da parecchi anni, oserei dire)? Perché la sola "Nightshift" dal disco di cover Soul, quando hai una sezione fiati, una di coristi e quell’unica esecuzione è stata un’autentica meraviglia e probabilmente uno degli highlight assoluti del concerto?
Domande che verrano lasciate senza risposta anche perché, come sempre e come è anche giusto che sia, Bruce Springsteen fa quello che vuole.
C’è però un ulteriore dato significativo di questo tour ed è che per la prima volta in 24 anni la setlist non è più imprevedibile. L’impianto generale sera dopo sera è lo stesso, i brani che ruotano, quando ci sono, non sono mai più di due o tre e sono sempre quelli: in sessanta date non abbiamo mai visto nessuna chicca da intenditori, nessuna rarità tirata fuori dal cilindro dopo anni, le scalette sono state praticamente fisse e questo, lasciatemelo dire, è stato probabilmente l’elemento che ha reso grande questo tour.
È stata la disgrazia dei Tramps che si sparano decine di date ovunque, certo (infatti sui forum e sulle community dedicate la discussione è stata frenetica a riguardo) ma sarebbe intellettualmente disonesto negare che la qualità complessiva dello spettacolo ne abbia beneficiato: niente più improvvisazioni, niente più cartelli con le richieste (negli ultimi anni erano diventati insopportabili), niente più gente (io sono stato spesso tra questi, lo ammetto) che giudicavano i concerti solo ed esclusivamente in base ai titoli delle canzoni suonate.
Quest’anno Bruce Springsteen e la E Street Band salivano sul palco, sera dopo sera, e tutti sapevano già in anticipo che cosa sarebbe successo. Niente più effetto sorpresa, niente più farfalle nello stomaco ogni volta che finiva un pezzo e vedevi che era già lì con la chitarra, pronto per attaccarne un altro. Eppure, questo focalizzarsi sulle solite canzoni ha fatto sì che quello di Monza sia stato, dal lato puramente musicale, uno dei più bei concerti suoi che abbia visto in vent’anni.
Già, Monza. Forse sarebbe il caso di spendere due parole a riguardo, anche se diverse cose le ho già dette qui sopra e non le ripeterò.
La location, alla pari di quella di Ferrara, ha fatto discutere, incastrandosi anche con l’annoso problema del prezzo dei biglietti: un conto è infatti pagare 100 e passa euro (che è una cifra assurda ma ormai allineata al mercato) in uno stadio, dove comunque la visuale è discreta anche nei punti più lontani; un altro è essere ficcati a forza su un pratone gigantesco dove, attenzione, non esiste più il classico “posto unico” per cui chi arriva prima meglio alloggia. Da anni, con la divisione in settori, chi è più fortunato compra davanti, gli altri, pur di dire “Io c’ero” pagano venti euro in meno per non vedere nulla.
A Monza l’effetto era straniante. Io, che ero nel primo settore e pure parecchio davanti, ho avuto la sensazione di essermi goduto il concerto in un piccolo locale: nessuna percezione della marea di gente dietro di me, il settore B e C totalmente invisibili, ma questo ha anche inficiato non poco sull’atmosfera complessiva: ho sempre odiato i concerti negli stadi ma perlomeno lì c’è un effetto “catino” che rende unica l’atmosfera, la botta di adrenalina che arriva dal pubblico è pazzesca, non a caso uno come Springsteen ha sempre amato suonare a San Siro, che è il posto perfetto per valorizzare la follia caciarona degli italiani.
Ecco, l’altra sera io non ho avuto questa sensazione: prime file in visibilio, certo, ma nel complesso atmosfera decisamente contenuta. Grandi singalong e battimani sui pezzi più conosciuti, ma per il resto totale tranquillità. E credo che in questo caso la dispersione in lunghezza dei 70mila presenti abbia giocato moltissimo. Ogni tanto mi giravo indietro e mi chiedevo: “Chissà che cosa sentono loro dal palco, chissà che cosa vedono…”.
Quindi direi location non adatta (anche se forse detto da uno che pensa che un concerto sopra le 15mila persone non sia più un concerto non è così affidabile) ma allo stesso tempo, nonostante abbia visto lamentele, organizzazione più che accettabile: le mappe con gli ingressi erano fatte bene, c’era un servizio navette ed uno parcheggi molto funzionante ma allo stesso tempo si è lasciato spazio a chi avesse voluto utilizzare soluzioni alternative (io ho parcheggiato gratuitamente in totale libertà e sono arrivato a piedi); il deflusso, pur con le tempistiche dovute ad eventi di questo tipo, si è svolto in maniera regolare.
Non so, magari sono stato fortunato io, ma, anche tenuto conto della devastazione meteorologica della sera prima, credo che non ci si possa davvero lamentare.
Sulle aperture, poco da dire. Il fan medio di Bruce Springsteen negli ultimi anni è come quello di Vasco Rossi: non è interessato alla proposta di altri artisti che non siano il suo beniamino. Raramente ai concerti del Boss c’è qualcuno che apre e quando c’è di solito non se lo caga nessuno. Di conseguenza, parlare dell’esibizione di due act che hanno suonato una quarantina di minuti a testa, sotto il sole e nell’indifferenza più totale, non è impresa semplice. Detto questo, bene gli australiani Teskey Brothers, che conoscevo solo di nome e che hanno fatto un bel concerto, anche se forse hanno inserito un po’ troppe ballate nella prima parte (nel finale, quando hanno alzato il ritmo e si sono lasciati andare ad una buona dose di soli e di improvvisazione, hanno funzionato decisamente di più); in generale comunque, il loro Soul venato di Southern e di Blues mi è sembrato di buona fattura, anche se dovrei risentirli su disco.
Tash Sultana mi è piaciuta senz’altro di più quando l’ho vista l’anno scorso a Torino: anche lei australiana (ma dubito si siano messi d’accordo) deve la sua fama a questo suo suonare tutti gli strumenti mandando in loop le varie tracce e cantandoci sopra, per cui la sua esibizione è sempre molto dinamica e bella da guardare. Anche vocalmente è dotatissima, le canzoni però non ci sono e il contesto odierno proprio non ha aiutato. Paradossalmente funziona molto meglio con la band, dove suona dritta e senza pochi fronzoli.
Bruce Springsteen inizia poco prima delle 20, leggermente in ritardo sulla tabella di marcia. Questa volta niente Morricone a sottolineare l’ingresso della band, come in passato avveniva nei concerti italiani. I musicisti fanno il loro ingresso uno ad uno accompagnati solo dagli applausi del pubblico, ovviamente diversi d’intensità a seconda del rispettivo indice di gradimento da parte della fan base (inutile sottolineare che le reazioni più entusiaste sono andate ai membri storici della E Street, sopratutto ai chitarristi Steve Van Zandt e Neils Lofgren, oltre che per Jake Clemons, il nipote dello scomparso Clarence, che dal 2012 sostituisce lo zio al sassofono e che sembra essere ormai entrato nei cuori dei fan).
L’attacco è affidato a “No Surrender”, che assieme a “Ghosts” e alla classica “Prove It All Night” costituisce il trittico iniziale, ulteriore conferma di come questo sia uno spettacolo molto più studiato nel suo svolgimento tematico (qui il filo conduttore è la musica come fattore che tiene su la vita, l’esistenza come battaglia quotidiana, l’amicizia come dimensione essenziale della quotidianità, ecc.).
I suoni sono perfetti (unico fattore positivo dell’aver fatto il concerto qui e non a San Siro), i volumi adeguati e il muro di suono della E Street è come sempre magnifico.
Bruce è evidentemente invecchiato (lo si vedeva già da foto e video ma adesso che ce l’ho avuto nuovamente davanti dopo sette anni il cambiamento è notevole) per forza di cose si muove meno ma la voce nel complesso regge e rimarrà potente e sicura fino alla fine: mi hanno detto che non è accaduto in tutte le date ma per fortuna stasera è così.
Musicalmente, l’ho già detto, la band è in gran spolvero, anche loro sono tutti invecchiati (e ce ne sono diversi più anziani di lui) ma il tiro non lo hanno perso, anzi. Seppur fisiologicamente rallentati, certi pezzi tipo “Badlands” e “She’s the One” hanno ancora un tiro pazzesco, persino “The Rising”, che dal 2002 non ha mai saltato una sera e che almeno personalmente aveva iniziato ad annoiarmi, è stata eseguita con una intensità ed una serietà per certi versi simile a quella del tour originale.
In tutto questo gran parte del merito va alla sezione ritmica: Max Weinberg alla batteria è un metronomo inarrestabile, Gary Tallent al basso è altrettanto implacabile, seppure come sempre defilato e poco appariscente.
Cori e fiati questa volta vengono sfruttati appieno ed anche la scelta dei brani probabilmente è andata in tal senso: “Kitty’s Back” (strano vedere un pezzo così raramente eseguito divenire un habitué) è strepitosa, probabilmente il punto in assoluto più alto del concerto, per come fonde tonalità Black ad improvvisazione in chiave jazzistica, la “E Street Horns” ad interagire magnificamente con le incursioni chitarristiche dello stesso Springsteen (i suoi assoli questa sera sono stati davvero taglienti).
Di “Nightshift” ho già detto: superlativa e suscitatrice del rimpianto per l’occasione mancata, perché la sensazione netta, consolidata dalla resa eccezionale di un pezzo normalmente trascurabile come “Mary’s Place”) è che il Bruce migliore sia questo qui, quello che tinge di Soul il suo Rock anthemico e liberatorio, sprigionando energia ma restando sempre in equilibrio sul filo del rasoio, lucido e tesissimo.
Ma grandi momenti sono anche quelli dedicati ai classici più importanti, quelli che anche dal punto di vista tematico hanno declinato una poetica, una visione della vita: “Backstreets” (non a caso suonata subito dopo “Last Man Standing”), “The River” (anche se il finale a chiamare il singalong che fa negli ultimi anni lo trovo tremendamente stucchevole), “Johnny 99”, “Because the Night” (Nils Lofgren magistrale come al solito), persino una traccia recente come “Wrecking Ball”, impreziosita dal wall of sound dei fiati, l’ho trovata assolutamente impeccabile.
Ecco, se a questo giro lo straordinario performer di brani ad alto contenuto emozionale come “Point Blank”, “Jungleland” o “Racing in the Street” non era in programma, lo Springsteen che funziona (e quello che a grandi linee dovrebbe indicare la direzione da seguire nei pochi anni che ancora rimangono) è questo qui.
Quello gigione e scanzonato che si cimenta in un Rock n Roll tradizionale buono per divertire il pubblico ma piuttosto superficiale nella sostanza pare fuori tempo massimo e appare quasi fuori contesto. Che poi canzoni come “Darlington County”, “Glory Days” e “Dancing in the Dark” siano state tra quelle più acclamate, e che l’esecuzione, nel finale, di “Twist and Shout” abbia mandato in visibilio i 70mila dell’Autodromo, non so quanti di loro consapevoli che per colpa di questa roba inutile ci saremmo persi “Thunder Road” (da denuncia penale non suonare un brano del genere all’ultima data di un tour, soprattutto quando l’hai fatto in tutte le precedenti), non fa che riconfermare quello che penso da anni dei fan italiani di Springsteen (nonché del livello di intelligenza musicale di chi normalmente frequenta questi raduni di massa che qualcuno si ostina a chiamare “concerti”).
È stato bellissimo, nonostante tutto, una degna conclusione di un tour che, prevedibilità a parte, ma forse proprio per questo, ha visto un Bruce Springsteen e la sua band decisamente più a fuoco rispetto ai due o tre precedenti, persino al tanto amato 2016 (scalette pazzesche ma anche tanta discontinuità). Che cosa ne sarà dell’artista del New Jersey da qui ai prossimi anni non lo so e non voglio tentare di immaginarlo. Resta che il suo modo di invecchiare sta risultando più credibile di quanto io stesso non riuscissi ad ammettere in precedenza. Non scrivo che non andrò più a vederlo perché ormai non sono più credibile. Diciamo che se quello di Monza fosse stato il mio ultimo concerto, sarebbe stato un modo bellissimo per accomiatarsi.