Avrei preferito non essere io a scrivere la recensione del nuovo disco di Brandi Carlile. Mi è difficile, infatti, essere obbiettivo nei confronti della songwriter originaria di Ravensdale (Washington), perché provo per lei sincero affetto e un’inspiegabile attrazione fisica. Amo la sua voce potente e versatile, amo la passione disarmante con cui si approccia alla propria arte, amo l’orgoglio e la serietà con cui parla della propria omosessualità, e amo il coraggio e la risolutezza con cui si batte fattivamente per gli ultimi, attraverso la sua Looking Out Foundation.
Amo Brandi qualunque cosa faccia, pur consapevole della sua discografia altalenante, capace di affiancare dischi memorabili come The Story (lo scorso anno, nel decennale della pubblicazione, è uscito un notevole disco tributo, i cui proventi sono andati in beneficienza) a inspiegabili cadute d’ispirazione (Bear Creek del 2012). D’altra parte, quando si ama, si prende il pacchetto completo, pregi e difetti. E i difetti di Brandi, come le sue indiscutibili doti, stanno lì, illuminati chiaramente dalla luce del sole: ogni tanto, inzuppa la penna nella melassa pop e il suo incredibile trasporto, che quando è dominato suona di vibrante pathos, diviene stucchevole enfasi tutte le volte che è lasciato a briglia sciolta.
E’ quello che capita anche in questo nuovo By The Way, I Forgive You, un album che sintetizza in dieci canzoni il meglio e il peggio della scrittura della Carlile. A produrre c’è Dave Cobb (insieme a Shooter Jennings), che solitamente è garanzia di qualità e che nello specifico, invece, sembra assecondare senza troppo spirito critico il songwriting umorale della cantante.
Il risultato è un disco di ottime canzoni, talvolta però appesantite da arrangiamenti così paludati da impedire all’indubbio slancio creativo di Brandi di raggiungere il cuore dell’ascoltatore e provocare emozione. Con le dovute proporzioni, mi verrebbe da chiamare in causa addirittura Let It Be dei Beatles, disco funestato dalle manie di grandezza di Phil Spektor, e riportato a nuova vita dalla versione “naked” voluta da Paul McCartney nel 2003. Ecco: tolta l’enfasi e tolta la melassa, By The Way, I Forgive You sarebbe un disco bellissimo. Invece, purtroppo, non è così.
Prendiamo a esempio The Joke, una sorta di Creep (Radiohead) in veste folk, il cui crescendo spinto dall’estensione vocale della Carlile, non riesce mai a decollare perché trattenuto a terra da un pesantissimo e soffocante arrangiamento d’archi (c’è lo zampino del compianto maestro Paul Buckmaster). O prendiamo anche Whatever You Do, autentico gioiello, ammazzato però da un’inutile coda in cui sono ancora gli archi a dispensare inutilmente quintali di zucchero. Ed è un vero peccato, perché sono convinto che queste canzoni, spogliate dagli inutili orpelli, potrebbero annoverarsi fra le cose migliori mai scritte dalla Carlile.
La quale, quando domina la materia, è capace di regalare all’ascolto brani di cristallina bellezza. Succede nel roots pop festaiolo e saltellante di Hold Out Your Hand, brano che starebbe meravigliosamente nel repertorio degli amici Avett Brothers (avete presente Kick Drum Heart?), nella classicità di una ballata come Mother, nella semplicità folk di Most Of All (mio Dio, come canta questa ragazza!) o nell’agrodolce melodia dell’iniziale Every Time I Heard That Song. Less is more, dicono gli inglesi, e se fosse stato così, staremmo parlando di un signor disco. Invece, la mia dolce Brandi, questa volta, si dovrebbe accontentare della sufficienza, ampia, ma sempre sufficienza. Anzi, no. Dal momento che le voglio troppo bene, le regalo mezzo punto in più. Alla faccia dell’obbiettività.