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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
28/09/2020
A Lemon
Calibrando il passato, nuova bellezza, riconoscibile faccia
A Lemon non eccede con la facile tecnologia e il suono digitale di questo suo primo disco ufficiale non è invasivo nella natura né tantomeno nel suo vocabolario: “Green” è un disco sintetico e affascinante, libero da cliché ma attento alle forme conosciute...

“Credo che restare fanciulli non sia necessariamente sinonimo di una mancata crescita, in senso negativo. Ma che abbia piuttosto a che fare con un certo grado di sincerità con sé stessi e quindi con le persone con cui ci si relaziona”. (A. Moncada)

 

Los Angeles non è mai troppo lontana da quando la moda delle nuove voci musicali spesso si spinge a restituire quel glam che i cultori (sempre cercatori di novità) stanno celebrando dietro nomi come Tame Impala e che il popolo quotidiano da mainstream in genere identifica dentro le seduzioni onnipresenti di George Micheal e compagnia cantando. Los Angeles in qualche modo diventa una sintesi visiva e concettuale di tutto questo pop che un poco si rende fashion, un poco si fa addirittura rock e un altro poco si leva di dosso il dover chiedere al “motivetto” la forza di passare all’esame del gusto. E la scrittura nuova della nuova musica italiana spesso ha preso questa direzione. E Alessandro Moncada, che di certo non è nuovo al mondo dei suoni, catanese che si conosce con il moniker A Lemon, mi lascia quel senso di viaggio introspettivo, solitario e allo stesso tempo “modaiolo” dentro metropoli cosmopolite dove il glam del cemento lustrato (manco a dirlo) fa da padrone nei salotti tecnologici del centro… in questo futuro che ha - più di prima - sinonimo di tecnologia esasperata.

Ma A Lemon non eccede con la facile tecnologia e il suono digitale di questo suo primo disco ufficiale non è invasivo nella natura né tantomeno nel suo vocabolario: “Green” è un disco sintetico e affascinante, libero da cliché ma attento alle forme conosciute, dove le luci soffuse di “I Don’t Wanna” mi ricordano di fare attenzione al suono che fanno i passi sul cemento laccato del centro, quello che fa da corona alle vetrine d’alta moda dei lunghi marciapiedi, o dove le silhouette iniziali del Korg Minilogue di “The Way Things Are” mi anticipano una buona giornata… o dove la rincorsa al successo diviene seduzione, sesso e arrivismo dentro serate in stile, tra club notturni e ristoranti per niente a buon mercato. “Green” è anche psichedelia pop, di quella che fa pensare ai Pink Floyd negli slide del lento incedere di “A Game of Change” ma è anche quel certo gusto da tramonto che ritroverei nelle leggerezze di Phil Manzanera quando suonano brani come “A Friend of Mine”.

Disco di sottile riflessione, di corse, di rivincite, di una bellezza che non urla e non giudica, che non fa a gomitate e non spinge la folla. Sintesi ed essenzialità: ecco due buone parole buone che mi vengono alla mente, nonostante questo “Green” sia un disco ampiamente prodotto.

Par vero sempre però che al fondo di una buona produzione esiste sempre un equilibrio che ha l’aria di esser cosa quasi scontata, quasi come fosse poggiata lì da sempre… quasi come a chiedersi cosa c’è di strano e di speciale…

Partirei proprio dal concetto di bellezza. Un disco che raccoglie molto del Glam Pop internazionale. C’è una bellezza che mi arriva seducente e di dettagli finissimi. Anche dentro brani più scuri e intimisti come “I Don’t Wanna” trovo sempre evidente la ricerca di una bellezza che abbia forza di sedurre. Per te cos’è la bellezza? E in questo primo lavoro quanto ha pesato nella scrittura e nella produzione?

Valuto la bellezza di qualcosa in base a quanto e per quanto tempo questa riesce a catturare la mia attenzione. Per fare un esempio, se guardo una fotografia che mi piace non riesco a distogliere facilmente lo sguardo, perché non voglio farlo, perché provo, cioè, piacere nel guardarla. È il mio unico parametro ed è basato solo sulle sensazioni che riesco a provare. Al contrario, se una foto non mi piace (per rimanere in tema di fotografie), non provo piacere nel guardarla, quindi evito di soffermarmici. Nel fare canzoni è un po’ lo stesso: scelgo i suoni e le melodie in base a quanto riescono a catturarmi, ma si tratta di una scelta spontanea. Anche qui, dipende dalle sensazioni che alcuni suoni riescono a farmi provare.

E i contenuti quanto sono veicolati dalla bellezza estetica? Quanto il viceversa? Un equilibrio davvero precario… l’annoso conflitto tra la facciata e il suo messaggio interiore. Molti penseranno alle etichette e pochi leggeranno i testi… la società di oggi in fondo è questo. Cosa ne pensi?

Non mi sento di condannare questo atteggiamento. Non penso neanche che sia una novità, anzi, è innato cercare di riconoscere il prima possibile ciò che si ha davanti. Però è innegabile che questa attitudine ci porti a sviluppare dei pregiudizi ed è per questo che diventa essenziale un pizzico di scetticismo. È anche vero che molte persone si fermano facilmente alla superficie. Chissà se tocca al pubblico dover andare oltre l’abito (che si dice non faccia il monaco) o se è compito di chi ci vuole dire qualcosa dover rendere tutto il più facilmente accessibile, magari, perché no, con una bella presentazione. Insomma, nel caso di un bel libro, ci sta che questo abbia anche una bella copertina.

Una Metropoli. Un altro elemento che torna evidente anche nel bellissimo video di “Voodoo”. E quindi parliamo di grandi città cosmopolite… questa musica la trovo figlia delle loro strade e della loro quotidianità. Di certo non è un disco che poteva nascere tra Roma e Milano… non trovi?

Probabilmente hai ragione. L'estero ha sempre esercitato su di me un certo fascino e devo ammettere che per un certo tempo ho considerato scontato ciò che era italiano, cosa che invece adesso è completamente cambiata. Senza dubbio il fatto di aver vissuto per un po' negli Stati Uniti ha rafforzato questa mia visione. Il video di "Voodoo" è stato girato da Marco Jeannin a Berlino, una città che si sposa perfettamente con il tono psichedelico del brano, perché è un luogo che già di per sé si pone come punto di riferimento della cultura alternativa. Non ho mai vissuto in una città enorme come Berlino, nemmeno quando vivevo negli States, anche se l'idea di farlo mi ha sempre un po' attratto, soprattutto in passato. Ho percorso principalmente strade catanesi nella mia vita, ma forse la musica che veniva fuori dalle mie cuffiette ha fatto in modo che le osservassi in maniera diversa.

E questa copertina sembra dirmi quanta vita cosmopolita ricca di glamour ci sia anche dentro una cascina ai bordi del mondo illuminato…

È un punto di vista al quale non avevo pensato. In effetti ciò di cui si ha bisogno non si trova sempre nel posto in cui ce l'aspettiamo. Voglio dire che il fascino di una grande città deriva, almeno per me, dal suo contenere tutto ciò che conta. Ma magari si tratta, appunto, solo di un’impressione. Quello di cui abbiamo bisogno spesso è molto più semplice e a portata di mano di quanto pensiamo.

Ecco, fermiamoci sulla copertina. Sulle prime ha una faccia che non somiglia al suono del disco. E questo mi piace molto. Ma come ti dicevo, ad osservarla bene invece ne svela molti particolari. Almeno così piace leggerla a me. Dal canto tuo… perché questa scelta grafica?

La copertina l’ha fatta Giovanna Pavano che a mio avviso è stata bravissima nel cogliere e nel tradurre visivamente le emozioni che le mie stesse canzoni riescono a trasmettermi e che spero possano arrivare anche a chi le ascolta. Io riesco a vederci dentro un misto di atmosfere: una lussuosa e luminosa, una più lugubre e scura. Entrambe si mescolano benissimo, secondo me, in quella casetta. Avverto lo stesso contrasto emotivo anche nei brani del disco.

E quindi il peso che l’estero, ma meglio direi anche, la vita altrove… quanto ha condizionato anche i tuoi suoni? Hai molto ricercato un viaggio a ritroso, una collocazione molto anni ’90… dai Pink Floyd più facili ai Fools Garden… è una mia impressione ovviamente. Quanto c’è di vero?

L’estero è stato e continua ad essere prevalente per quanto riguarda i miei gusti musicali. I Pink Floyd sono stati una scoperta relativamente recente. Da piccolo li ascoltava mia madre ed io, per principio, dicevo che non mi piacevano. Non riesco ad identificare i miei ascolti in un unico decennio. Sicuramente i Supertramp sono stati una presenza costante. E anche i Simply Red. Insomma, un po’ ci hai azzeccato.

Mi colpisce il ritorno ciclico di un synth che utilizzi spesso in molto punti del disco. Caratterizza molto la faccia, la rende futuristica per quel che era il futuro qualche decade fa. E non penso sia un caso che tu lo abbia utilizzato spesso… forse mi sbaglio, confondo suoni simili… ma “Voodoo”, “The Way Things Are”, “Sea of Green” o anche “A Game of Chance”… sono canzoni sorelle, è inevitabile…

Hai ragione. Utilizzo principalmente un Korg Minilogue che ha un timbro caratteristico e, in effetti, l'ho usato in tutte le canzoni. È stato il mio primo synth e adoro usarlo. Alcuni pezzi sono nati proprio da un giro di synth, come "Voodoo" e "The Way Things Are". Se dovessi associarle a dei colori, in base al loro sound, queste due canzoni sarebbero molto gialle ed arancioni. "Sea of Green" e "A Game Of Chance" invece sarebbero azzurro-verdine con un tocco di viola. Brani con un sound simile mi fanno subito venire in mente colori simili.

Al passato ci torni anche attraverso il vinile. Oggi per te, che hai costruito molto del tuo suono grazie alle frontiere digitali, cosa significa tornare al solco analogico di un Lp? Che ovviamente sembra ma non è una contraddizione…

Penso che sia molto personale. C’è chi preferisce la comodità di Spotify e chi ama la ritualità del vinile. È chiaro che si tratta di due esperienze molto diverse. Nel caso del vinile alla semplice fruizione musicale si aggiunge l'emozione di tenerlo in mano, di poggiarlo sul piatto, la paura di graffiare tutto…L'aspetto che più mi affascina del vinile è proprio la sua modalità di utilizzo, che in qualche modo ti costringe a stare lì, a girarlo a metà scaletta, a fare un'esperienza tattile. È come farsi un tè. Le canzoni sono le stesse, cambia l’approccio.

“Green”… è il nuovo inizio. Forse è l’inizio per eccellenza. Niccolò Fabi ci ricorda di quanto la vita sarebbe bella se fosse fatta soltanto di prime volte. Per te ricominciare o ripartire cosa rappresenta? Non pensi che sia anche una facile soluzione alle complessità che viviamo?

Per me non è un nuovo inizio che dimentica quello che è successo in passato, ma una ricalibrazione degli strumenti di navigazione, se così posso dire. Di conseguenza non è affatto una facile soluzione, anzi, è abbastanza difficile abbandonare le proprie certezze e realizzare ed ammettere che ci sono delle cose che vanno sistemate. Si mantiene il meglio, si lascia andare il peggio e si aggiunge del nuovo.

Voglio citare la chiusa del disco: “I'll never grow old and feel like I'm done for the day”. Pensando anche ad una donna a cui non puoi credere con tutto quel trucco sulla faccia, la vita - secondo te - quanto si sta riempiendo di facciate finte e truccate? Quanto è importante restare bambini, con quell’incanto e quel poco pregiudizio sulle cose? Quanto è importante non crescere mai?

Penso che capiti molto spesso che la gente finga o si atteggi a ciò che non è, che faccia cose che non vuole fare. Credo che ciò sia dovuto ad una pressione che spesso ci si autoimpone, in forza della quale si deve sempre apparire felici o, meglio, non farsi vedere tristi, come se la tristezza fosse un’emozione sbagliata (come se ci fossero emozioni sbagliate, no?). C’è chi esce perché non sa stare dieci minuti da solo con sé stesso e, di conseguenza, non ha idea di come si costruisca un’amicizia. È veramente un peccato. Ho anche l'impressione che molte persone facciano fatica a dire quello che pensano. Ma che male c’è? Credo che restare fanciulli non sia necessariamente sinonimo di una mancata crescita, in senso negativo. Ma che abbia piuttosto a che fare con un certo grado di sincerità con sé stessi e quindi con le persone con cui ci si relaziona.

Ed il problema delle maschere non è tanto della società… ma molto è anche nostro: “...trying to be what it is that you've become…”. Di nuovo un inno alla verità di noi stessi? Che forse riconoscere quel che siamo è il primo vero tabù da sconfiggere…

Come dicevo prima, mi capita di vedere gente che non si comporta come vorrebbe o che non fa ciò che vorrebbe fare. Per essere chiaro, non mi riferisco a chi vuole fare equitazione e non se lo può permettere. Voglio dire: se odi andare alle feste, ma vai ogni sera a casa di qualcuno pur di non rimanere da solo, è matematico che farai una vita tremenda. Magari la tua passione è passeggiare di pomeriggio al parco: non hai nessuno con cui farlo? Vacci da solo! Se non ti comporti come vorresti veramente, diventerai una persona che non corrisponde con quello che, da dentro, vorrebbe venir fuori.

La sincerità verso sé stessi è un punto cruciale per me. È il modo per dare forma alla propria vita. Si tiene così tanto in considerazione quello che la gente potrebbe pensare di noi che ci dimentichiamo cosa noi stessi pensiamo di noi. Che sia chiaro, includo anche me nel girone dei paranoici. Infatti ogni tanto, per rinfrescarmi la memoria, mi capita di fare lo scemo in giro, in modo da ricordarmi che, in fondo, a nessuno interessa quello che sto facendo.

A chiudere: questo disco somiglia più ad Alessandro Moncada o al tuo alter ego americano? Tu cosa sei diventato: un italiano all’estero o un cittadino del mondo in Italia?

Non mi sento separato dall’Italia e dall’essere italiano. In fondo penso di essere io stesso un misto di queste caratteristiche. Più che somigliare a un alter ego, quindi, direi che questo disco è il frutto di tutto quello che c’è "impacchettato" in me. Anzi, di quello che è riuscito a venir fuori fino ad ora. C’è dell’altro che voglio far uscire allo scoperto e non vedo l’ora di riuscirci.


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